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Il trattamento e lo scarico delle acque di falda “assimilate” ai reflui industriali ai sensi del novellato art. 243 T.U.A.

di Pasquale Giampietro

Categoria: Acqua

Sommario

1. La nuova versione dell’art. 243, introdotta dalla legge n. 98/2013.
1.1. Il dato normativo.
2. Le modalità di gestione della acque sotterranee.
2.1. Il comma 4 e le condizioni per l’”assimilazione”.
2.2. Libera scelta sulle metodiche di intervento?
3. Le condizioni di assimilazione delle acque di falda alle acque reflue industriali.
3.1. Trattamento, sistemi di collettamento e diluizione.
4. Il divieto di diluizione.
4.1. I presupposti della diluizione vietata.
4.2.L’idoneità tecnica dell’impianto di depurazione. Insussistenza della “miscelazione” e della nozione di “scarico parziale”.
5. Sull’obbligo di integrare i limiti di emissione con le prescrizioni sugli obiettivi di qualità dei corpi ricettori: obiezioni possibili.
5.1. Ragioni favorevoli a un concorso delle normative sui limiti di emissione e sugli obiettivi di qualità.

 

1. La nuova versione dell’art. 243, della legge n. 98/2013.
La terza edizione del testo dell’art. 243, relativo alla disciplina delle “Acque di falda”, dopo i precedenti interventi correttivi/integrativi[1], ha riproposto nuovi e vecchi interrogativi sulla sua corretta interpretazione (e relativa applicazione), a cui si può oggi rispondere con maggiore consapevolezza grazie ai molteplici approfondimenti forniti dalla letteratura giuridica e tecnica di settore, dagli indirizzi (non sempre coerenti) della giurisprudenza, amministrativa e penale, e dalle prassi amministrative, regionali e provinciali, (ancora…) ad alto tasso di variabilità.
Ma, soprattutto, in ragione della specificità dei casi concreti, di volta in volta regolati, in funzione della tipologia degli interventi da attuare (di bonifica, messa in sicurezza, messa in sicurezza operativa, ecc.); della natura dei luoghi (siti ordinari, aree agricole, ex 242; siti di interesse nazionale, ex art. 252; siti di preminente interesse pubblico per la riconversione industriale, ex art. 252-bis) e delle molteplici procedure da seguire (ordinarie, speciali, semplificate: v., da ultimo, l’art. 242-bis).

1.1. Il dato normativo.
Per questa risalente “incontinenza normativa” e a causa di una marcata ed insistita approssimazione del legislatore, troppo sensibile alle difficoltà e agli interessi contingenti (di un costante, agitato presente…), e sempre più sordo ad un preventivo e meditato approfondimento delle tematiche da risolvere, va innanzi tutto ricordato, nell’evoluzione dell’istituto, un iniziale e limitato inserimento, nel primo comma dell’art. 243, dell’espressione: “ o messa in sicurezza”, da parte della legge n. 13/2009, di conversione del d.l. n. 2008, n. 208 (di cui v. l’art. 8 quinquies)[2], che apporta un doveroso ampliamento della casistica del primo comma, in precedenza limitato alla sola bonifica del sito e non anche alla sua messa in sicurezza[3].
Circa quattro anni dopo, si registra una completa riscrittura del disposto, introdotta con il d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (titolato “Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia”) che, peraltro, subisce un definitivo… aggiustamento in sede di conversione, con legge 9 agosto 2013, n. 98. La quale, oltre a rendere il contenuto dell’articolo, assai più dettagliato (v. oltre), ha mutato altresì il titolo della rubrica (dalle “Acque di falda” alla “Gestione delle acque sotterranee emunte”), con un’esplicitazione che si conforma alle definizioni dell’art. 240, comma 1, lett. a), in cui si fa cenno alla nozione di “sito” come comprensivo anche “delle acque sotterranee”[4].
L’ampliamento dei commi (da due a sei) appare vistoso; ma ciò che conta è il loro dettato innovativo. Si segnala, infatti, una più ampia casistica d’interventi (v. i commi 1- 4) – di cui si dovrà chiarire il reciproco rapporto (per es.: se trattasi di interventi di tipo alternativo, rimessi alla libera scelta del soggetto responsabile ovvero di attività non solo vincolate ma anche gerarchizzate: v. oltre) – con specifica attenzione al quarto comma il quale, per la prima volta, esplicitamente formalizza il principio della “assimilazione” delle acque sotterranee emunte alle acque reflue industriali, a determinate condizioni (che andranno comparate con quelle precedenti)[5].

2. Le modalità di gestione delle acque sotterranee.
Entrando nel merito della nuova disposizione, appare preliminare compararne i primi quattro commi, per chiarirne meglio il relativo contenuto.
Non par dubbio, infatti, che, nella prima ipotesi (comma 1), il legislatore abbia previsto una tipologia complessa e coordinata d’interventi – ritenuti ottimali – sulle acque sotterranee, volti ad “eliminare” del tutto o “isolare” ed arrestare le fonti di contaminazione in atto (e a tutto campo: fonti dirette e indirette), imponendo, in prima battuta, misure di prevenzione e messa in sicurezza, anche ricorrendo alla “conterminazione idraulica”, cui far seguire l’emungimento e il trattamento.
L’eliminazione o isolamento della/e fonte/i inquinante/i avverrà verosimilmente con una “barriera idraulica” (così tradotta l’espressione “conterminazione idraulica” in contrapposizione al “barrieramento fisico” del comma successivo)[6] che assolve al compito di interrompere il trasferimento a valle del pennacchio contaminante per effettuare il trattamento/abbattimento delle sostanze inquinanti prima dello scarico finale. Risulta, invece, ripetuta e tralatizia l’aggiunta sulla verifica della “possibilità tecnica di utilizzazione delle acque emunte nei cicli produttivi in esercizio nel sito”, con l’obiettivo del risparmio delle risorse idriche, già previsto nel 2006, nel primo comma dell’artico 243.
In definitiva, il flusso delle acque sotterranee contaminante sarà intercettato mediante una barriera di pozzi e convogliato al trattamento a seguito del quale si procederà allo scarico nel corpo ricettore (acque superficiali ovvero acque sotterranee dello stesso acquifero da cui provengono, in deroga al comma 4 dell’art. 104, e nel rispetto di rigorose condizioni poste dal comma 5, che ripete sostanzialmente il vecchio comma 2, dell’art. 243, prima versione).
Nel comma 2, viene consentito, come forma di intervento sulle acque di falda, il “barrieramento fisico”, secondo metodiche già sperimentate e note, con tecniche di confinamento tramite misure verticali o orizzontali che servono ad impedire che le sostanze contaminanti possano diffondersi nell’ambiente circostante tramite la circolazione lungo il flusso di falda (per es. con paratie di tenuta, diaframmi, pannelli metallici, capping, ecc.).[7]
Nel comma 3, si riproducono le prescrizioni del comma 1, dell’art. 243, prima e seconda versione, con la importante specificazione che le acque di falda – emunte da aree soggette a bonifica o messa in sicurezza – possono essere reimmesse non solo in acque superficiali (“corpi idrici”) ma anche “in fognatura”[8], e previo trattamento depurativo in “apposito impianto di trattamento delle “(sole) ” acque di falda” ovvero (cioè come alternativa, secondo la libera scelta del titolare dello scarico, espressamente consentita) presso gli impianti di trattamento delle acque reflue industriali esistenti e in esercizio in loco, che risultino tecnicamente idonei”.
Da notare, in limine, che la prima versione dell’art. 243 non faceva riferimento né ad un impianto autonomo dedicato alle sole acque di falda né ad un impianto di trattamento delle acque reflue industriali, in cui si immettessero anche le acque sotterranee contaminate, per essere trattate (benché quest’ultimo caso era sottinteso nel momento in cui si richiedeva che le acque di falda emunte potevano essere scaricate (direttamente o previa utilizzazione in cicli produttivi in esercizio) “nel rispetto dei limiti di emissione di acque reflue industriali in acque superficiali” ( e dunque previo trattamento).

2.1. Il comma 4 e le condizioni per “l’assimilazione”.
Il comma più problematico, in sede esegetica, risulta, a mio avviso, il comma 4°, sia perché, dato il suo tenore letterale, potrebbe leggersi come: a) una quarta ipotesi di intervento e trattamento delle acque sotterranee emunte (rispetto alle specifiche metodiche individuate nei primi tre commi), nel momento in cui esso insiste nell’indicare, espressamente e nuovamente, il “previo trattamento” e le specifiche modalità di convogliamento (secondo un “sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il punto di prelievo di tali acque con il punto di immissione delle stesse”); sia in quanto, si sancisce, per la prima volta e in modo esplicito, che solo nel rispetto di dette specifiche condizioni, sarà riconosciuta alle acque di falda (a fronte del silenzio tenuto, sul punto, dal legislatore del 2006) “… l’assimilazione alle acque reflue industriali che provengono da uno scarico e come tali soggette al regime di cui alla parte terza”.
Con un’ulteriore suggestione: che tale ultima, decisiva qualificazione giuridica (dell’assimilabilità) è indicata solo nell’ambito di detto comma 4 (e non inserita e ripetuta nelle prime tre fattispecie introdotte, ex novo, nel 2013), tanto da far pensare ad alcune pubbliche amministrazioni che l’ambita “assimilazione” sia stata riconosciuta solo nella vicenda e alle condizioni ivi indicate[9].
Quest’ approccio interpretativo non può essere condiviso giacché il nuovo dettato dell’art. 243:
a) non esclude – anzi ammette espressamente – che le acque di falda possano essere trattate in un preesistente impianto di depurazione delle acque reflue industriali (ove è consentito accogliere anche altre tipologie di scarichi: acque nere, di dilavamento, di prima pioggia) per esplicita previsione del suo comma 3, con cui la lettura della provincia richiamata (v. nota 9) confligge apertamente;
b) consente esplicitamente l’ingresso, nella stessa conduttura che porta al depuratore – ovvero direttamente all’impianto di trattamento – di altre acque reflue oltre a quelle di falda, escludendo che si configuri un’ipotesi vietata di diluizione, ex art. 101, comma 5 (per le ragioni che si diranno più avanti ma soprattutto), perché tale vicenda è prevista e autorizzata esplicitamente dal comma 3, cit.;
c) non impone la separazione delle acque di falda dalle altre acque reflue, nel momento in cui autorizza due soluzioni tecniche: “un apposito impianto” di depurazione per le acque sotterranee ovvero, un comune “impianto di trattamento esistente, in esercizio in locoe idoneo (il quale tratterà le acque reflue industriali unitamente alle acque di falda, che finiranno per miscelarsi con le prime).
In definitiva, l’applicazione restrittiva dell’art. 243, nei termini sopra riportati, sembra voler conferire al suo comma 4, una autonomia di fattispecie e di significato (rispetto alle vicende considerate nei restanti commi dell’articolo ed, in specie, nel comma 3) che la legge n. 98/2013 non gli ha assegnato (v. oltre).

2.2. Libera scelta sulle metodiche di intervento?
Come accennato, a par. 2.1., l’indicazione, da parte del legislatore, di modalità di gestione esplicitamente differenziate delle acque di falda, secondo i primi commi del disposto, pone un interrogativo in ordine al riconoscimento o meno di una facoltà/libertà di scelta del soggetto tenuto alla bonifica (o alla messa in sicurezza) in ordine alle tipologie di intervento più idoneo al caso concreto (in termini tecnici e di efficienza dei risultati, ovvero anche per ragioni di tipo economico-finanziario, ecc.).
Ebbene, a tale interrogativo non può che darsi una riposta negativa in considerazione delle finalità perseguite dalla norma e nel rispetto del suo tenore testuale.
Per il primo aspetto (ratio), sembra manifesta la volontà del (nuovo) legislatore di imporre, in prima battuta, un tipo di intervento di prevenzione, messa in sicurezza e quindi di bonifica il più spinto possibile, volto cioè ad eliminare o isolare le fonti di contaminazione.
Per il secondo profilo (fondato sul dato testuale), non può sfuggire che l’adozione di queste misure – preventive e di bonifica – “… devono essere individuate ed adottate “, secondo i parametri delle “migliori tecniche disponibili”.[10]
Tale lettura del comma 1 – volta a escludere una libera scelta sulle modalità di gestione delle acque sotterranee al di fuori (o in alternativa) ai sistemi ottimali della “migliore gestione”, sopra indicati – sembra formalmente confermata dal tenore del comma successivo, dove il ricorso al “barrieramento fisico”, lungi dal porsi allo stesso livello ed in alternativa alle misure del precedente comma, 1) “.. è consentito solo nel caso in cui non sia possibile conseguire altrimentigli obiettivi di cui al comma 1” e: 2) “..secondo le modalità dallo stesso previste[11].
Alla medesima conclusione deve pervenirsi in relazione alle procedure di bonifica o messa in sicurezza del comma 3, per il quale l’immissione delle acque emunte in corpi idrici “deve avvenire previo trattamento depurativo” ma solo a condizione che “… non si proceda ai sensi dei commi 1 e 2”.
In definitiva, una lettura piana – e aderente al testo della norma – consente di affermare che le rassegnate misure d’intervento sulle acque di falda non sono lasciate: a) alla libera (arbitraria) scelta del soggetto obbligato ma vengono normativamente coordinate in base a: b) una gerarchia di incidenza/ efficacia (secondole migliori tecniche disponibili, ex comma 1) che impone all’operatore: c) un ordine di priorità – a cui esso non può sottrarsi – se non: d) dimostrando che, nella concreta situazione che lo riguarda, “… non è consentito conseguire altrimenti gli obiettivi di cui al comma 1”[12](rispetto alle modalità prescelte, riconducibili ai commi successivi 2 e 3).
Ove tale conclusione appaia condivisibile – a fronte della richiesta della P.A. competente di pretendere il rispetto delle misure imposte dal comma 1, dell’art. 243, novellato – si porrebbero delicati problemi in ordine all’onere della prova sulla “non possibilità”, in concreto, di perseguire gli obiettivi del primo comma (onere ovviamente a carico dell’operatore gravato dall’obbligo di bonifica) e sui motivi (fattuali, tecnici, economico-finanziari, ecc.) che è lecito addurre, per sottrarsi, legittimamente, alle misure più stringenti (ed onerose..) imposte dal comma 1.

3. Le condizioni di assimilazione delle acque di falda alle acque reflue industriali.
Sciogliendo la riserva formulata all’inizio di questo paragrafo, occorre tornare al dettato del comma 4, dell’art. 243, che, lungi dal configurare una quarta, autonoma procedura di recupero di un sito contaminato[13], pone – invece – delle condizioni tecnico-giuridicheche interessano e si estendono a tutte e tre le fattispecie dei commi precedenti, sopra esaminati.
Più esplicitamente, detto comma, conferisce alle acque di falda emunte (di cui alle vicende descritte nei primi tre commi) la qualifica giuridica di “acque reflue industriali” – per assimilazione (a fronte della loro origine e natura di rifiuti liquidi)[14] solo a condizione che:
1) le acque di falda assumano alcuni requisiti giuridici propri dello “scarico”, ai sensi dell’art. 74, comma 1, lett. ff) ….. (e dunque non restino ”rifiuti”) allo stato liquido;
2) siano adeguatamente trattate (depurate), tanto da rispettare i previsti limiti di emissione, propri delle acque reflue industriali;
3) venga ridotta la massa di sostanze inquinanti scaricate in corpo ricettore, con l’evidente fine di evitare il trasferimento della contaminazione presente nelle acque sotterranee ai corpi idrici superficiali, ex comma 6, dell’art. 243.
In definitiva, il comma in esame (il 4°) non pone condizioni autonome e aggiuntive, da applicare alle vicende dei primi tre commi, ma si limita a ribadire che le acque di falda emunte, devono assumere alcune (non tutte le) caratteristiche dello “scarico”, ai sensi dell’art.74, comma 1, lett. ff), cioè di “una qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di collettamento che collega, senza soluzione di continuità” (e qui cessa la riproduzione dell’art.74 e seguono la novità e diversità della fattispecie, sub comma 4: v. oltre), “.. il punto di prelievo di tali acque con il punto di immissione delle stesse.. in corpo ricettore”.
La diversità fra la nozione di “scarico”, in senso proprio (giuridico e tecnico), di cui alla Parte III del TUA, e lo scarico delle acque sotterranee emunte, appare infatti evidente in quanto solo la prima nozione è propriamente riferibile alle acque reflue domestiche, industriali, urbane, ecc. ed è strettamente legata, nella sua genesi, “al ciclo di produzione del refluo” (v. lett. ff cit.). Diversamente le acque di falda condividono dello “scarico”, necessariamente, il “sistema stabile di collettamento“, l’assenza di “soluzioni di continuità”, di cui si è detto (pena la perdita della qualifica) e i limiti di emissione (delle acque reflue industriali, secondo il comma 3, cit.).
Proprio in ragione di questa diversità, si presenta altrettanto ovvia la necessità, per il legislatore, di ricorrere alla categoria giuridica dell’assimilazione (nella specie: delle acque sotterranee alle acque reflue industriali), tanto risalente e consolidata[15] quanto, sfuggente e approssimativa (peraltro ben presente anche nel T.U.A.)[16]
Resta da osservare, infine, che, alla luce di quanto previsto in linea di sistema dall’art. 101, comma 7 cit.[17], il parametro dell’assimilazione sembra produrre effetti non solo sulla “disciplina degli scarichi” applicabili alle acque sotterranee (nel nostro caso, quella dei valori tabellari dei reflui industriali) ma anche in materia di competenze al rilascio delle “autorizzazioni.
In definitiva, è ben vero che solo nel suo comma 4 (anziché nel primo, come in precedenza), l’art. 243 novellato introduce il “beneficio” dell’assimilazione delle acque sotterranee alle acque reflue industriali (assimilazione non evocata in precedenza). Ma tale riconoscimento riguarda proprio le fattispecie di bonifica e messa in sicurezza regolate dai primi tre commi e non un’ipotetica, distinta procedura di bonifica del comma 4, che non esiste (v. retro, nota 9).
Mi sia consentita un’ultima considerazione. L’assimilazione, de iure, delle acque di falda agli scarichi industriali trancia di netto quei primi orientamenti della giurisprudenza amministrativa che sostenevano[18], sempre e comunque, la natura di rifiuti, allo stato liquido, delle acque sotterranee emunte in base ad argomenti schematici che possono essere così riassunti: a) trattasi di sostanze liquide non riutilizzabili e vengono dal loro detentore disfatte, ricadendo nell’art. art. 183, comma 1, lett. a); b) esse sono contemplate dal punto Q4 della direttiva comunitaria oltre che dall’Allegato D, alla parte IV del D. lgs. n. 152/2006, quali rifiuti liquidi acquosi e concentrati acquosi prodotti dalle operazioni di risanamento delle acque di falda, contenenti o meno sostanze pericolose identificati, rispettivamente, con i codici CER 19.13.07* e 19.13.08; c) manca la provenienza da cicli produttivi e dunque non sono riconducibili alla nozione di acque reflue industriali, di cui all’art. 74, comma 1, lett. h), D. Lgs. n. 152/2006; d) l’Autorità competente, in base all’art. 108, comma 5, può richiedere che gli scarichi parziali, contenenti le sostanze della tabella 5, del medesimo Allegato 5, siano tenuti separati dallo scarico generale e disciplinati come “rifiuti”».
La dottrina ha già chiarito l’inattendibilità di tali motivazioni, facendo notare che non è decisivo l’argomento del “ disfarsi” (delle acque di falda) perché tale condotta potrebbe essere ravvisata anche per “.. le acque di processo”. Né sono probanti i richiami al punto Q4, dell’Allegato A (« sostanze accidentalmente versate, perdute o aventi subito qualunque altro incidente, compresi tutti i materiali, le attrezzature, ecc. contaminati in seguito all’incidente in questione») ed al codice CER previsto per i rifiuti liquidi prodotti da operazioni di risanamento (19.13.07* e 19.13.08).
Infatti, come ha insegnato la Corte di Giustizia, l’Allegato A svolge una funzione meramente descrittiva delle categorie di rifiuti, poiché la voce Q16 («ogni altra sostanza o materiale non menzionati nelle voci da Q1 a Q15») ricomprende, tendenzialmente, qualunque sostanza, materiale od oggetto sicché la qualificazione di un materiale come rifiuto o non rifiuto deve fondarsi sulla condotta o sull’obbligo o, infine sull’intenzione di disfarsi della sostanza o dell’oggetto e non sulla sua sussumibilità nelle voci Q1-Q16 [19].
Dall’altro, è noto – per espressa previsione dello stesso legislatore comunitario – che l’inclusione di un determinato materiale nell’Elenco dei Rifiuti non ne comporta automaticamente la qualifica di “rifiuto”.[20]

3.1 Trattamento, sistemi di collettamento e diluizione.
Negata, pertanto, l’autonomia del comma 4 (in termini di procedura autonoma di bonifica e messa in sicurezza), e accertato che esso si pone come previsione che ribadisce i presupposti fattuali per l’attribuzione dell’assimilabilità alle acque sotterranee, in tutte le vicende precedentemente elencate (ai commi 1-3), vanno esaminati alcuni problemi di coordinamento che riguardano:
1) gli impianti di trattamento. Nell’ipotesi descritta dal comma 4, il sistema di collettamento, che collega il punto di prelievo con quello di immissione, “previo trattamento”, indurrebbe a pensare ad un impianto unico, dedicato esclusivamente alle acque di falda contaminate, sia in forza dell’inciso “senza soluzione di continuità” (il quale potrebbe suggerire che dette acque non devono né possono incontrarsi/unirsi con acque reflue di diversa natura, prima dell’impianto di depurazione o all’interno di esso); sia in quanto, nei commi precedenti, si parla anche di “apposito” impianto; sia, infine, perché il consentire l’utilizzo promiscuo di un impianto di depurazione delle acque reflue industriali anche per trattare le acque di falda potrebbe essere considerata una forma di “diluizione” vietata dalla legge.[21]
Peraltro questa lettura – che sarebbe accreditabile ove si leggesse il comma 4 quale ipotesi autonoma e non come norma integrativa delle precedenti fattispecie (secondo quanto ritenuto sopra) – deve respingersi del tutto a fronte alla chiara formulazione del comma 3. Il quale richiede che “l’immissione delle acque emunte deve avvenire previo trattamento depurativo”, introducendo, però, testualmente la facoltà – e dunque la legittimità – che l’impianto possa essere di due tipi: a) esclusivo (cioè dedicato alle sole acque di falda: “apposito”) ovvero “comune” perché “.. in esercizio in loco”, per il trattamento delle acque reflue industriali.
Con l’ulteriore sottolineatura che, nel caso di trattamento “misto”, “… essi (impianti) risultino tecnicamente idonei”. Condizione che appare ovvia e dunque quasi superflua[22]. La contestuale depurazione di entrambi i tipi di acque, industriali e di falda, non potrebbe, in nessun modo, esonerare l’impresa dal rispetto dei limiti di emissione previsti per lo scarico (unico) finale, in acque superficiali o in fognatura, di questi effluenti (distinti all’origine ma assimilati fra loro nella comune qualifica di acque reflue industriali e nel comune trattamento);
2) il sistema stabile di collettamento. Né potrebbe sostenersi che un sistema il quale consenta alle acque di falda, una volta emunte e convogliate in proprie canalizzazioni (che si allacciano, senza soluzione di continuità, ad altre condotte, destinate al trasferimento delle acque reflue industriali e che conducono all’impianto centrale di depurazione “esistente e in esercizio in loco”) – non sia definibile tecnicamente (e giuridicamente) un “sistema stabile di collettamento”[23].
La nozione tecnica di “sistema di collettamento” è tale da comprendere, infatti, tanto la singola conduttura quanto una rete o reticolo di condotte distinte ma connesse. Anzi, il termine ‘sistema di collettamento’ (nel suo significato proprio e più ampio) definisce e descrive un insieme di elementi o sottosistemi interconnessi tra di loro ….. tramite reciproche relazioni[24].
Essa è in grado quindi di ricomprendere anche collettamenti di differenti caratteristiche e proprietà purché siano stabili (quindi ben definiti e verificabili) e senza interruzioni fra loro (o “soluzioni di continuità”).
3) il divieto di ogni “soluzione di continuità”. Le questioni specifiche sottese a questa condizione non sono nuove in quanto attengono, come risaputo, alla nozione stessa di “scarico” per la cui ricorrenza giuridica si richiede un collegamento “continuo” (cioè non interrotto) fra “il ciclo di produzione del refluo e il corpo ricettore” (nel caso: acque superficiali e fognatura).
Nell’art. 243, tale collegamento non riguarderà il ciclo di produzione del refluo (come per le acque industriali) ma “il punto di prelievo delle acque sotterranee contaminate. Mentre resta ferma la nozione di “punto di immissione delle stesse” con la precisazione che, nel ricettore, confluiranno, promiscuamente, sia le acque reflue industriali che le acque di falda trattate, in uscita dal depuratore.
Risulta altresì pacifico, in punta di diritto, il concetto di interruzione (o rottura) della richiesta “continuità. Esemplificando: ove le acque di falda, prima di essere convogliate negli “impianti di trattamento delle acque reflue industriali, esistenti e in esercizio in loco, fossero allontanate dal “sistema di collettamento” e conferite a terzi, tramite autobotti, per un loro pretrattamento ovvero prelevate da detto sistema per essere raccolte in un centro di stoccaggio o in una semplice vasca, separata dalla rete di collettamento, verrebbe meno tale “condizione” e le acque di falda tornerebbero ad essere qualificate rifiuti liquidi, ai sensi dell’art.185, comma 2, lett. a), secondo costante giurisprudenza (analogamente a quanto previsto dal c.d. Decreto Ronchi, ex art. 8, comma 1, lett. e)[25]
Altrettanto dicasi nell’ipotesi in cui, al fine di praticare un pretrattamento delle acque di falda, prima della loro immissione nel depuratore delle acque reflue industriali, esistente in loco, esse si dovessero allontanare dal sistema di collettamento (per entrare in un distinto sistema) per poi farvi rientro, dopo la parziale depurazione, previa reimmissione nella rete da cui erano state allontanate, nel rispetto di certe condizioni[26].

4.Il divieto di diluizione.
Il ricorso all’impianto di trattamento dei reflui industriali, di cui al comma 3, cit., per la depurazione anche delle acque di falda, è stato contestato, come ricordato[27], in base al richiamo del noto divieto di diluizione, di cui all’art. 101, del T.U.A. (ferma restando la ricorrenza della “compatibilità” delle acque da depurare con le caratteristiche del depuratore).
Più in generale, si è osservato, in dottrina, che tale assimilazione contrasterebbe con il dato di fatto che “ .. tra lo standard di qualità per le acque profonde (valore tabellato oppure ottenuto tramite l’applicazione di un modello di analisi di rischio) e quello relativo allo scarico, vi possono essere differenze anche notevoli (anche di 1-2 ordini di grandezza). Il che, portato alle estreme conseguenze, condurrebbe ad affermare che potrebbe essere sufficiente emungere le acque profonde contaminate e, ove esse corrispondessero allo standard di qualità fissato per lo scarico di acque reflue industriali, verrebbero direttamente scaricate in corpo idrico superficiale, senza bisogno di alcun trattamento; pertanto il Legislatore ammetterebbe la mera “diluizione” come sistema di “trattamento” delle acque profonde”.[28]
Non può essere sottovalutata la correttezza tecnica dell’esposta dottrina ma ciononostante potrebbe dubitarsi della soluzione giuridica che essa propone quando suggerisce, in via interpretativa, che “… una simile prescrizione” (ci si riferisce all’art. 243) “ può essere intesa nel senso che, ancorché le acque emunte e trattate siano da considerarsi uno scarico, lo standard di qualità per tale scarico non potrà essere fissato unicamente facendo riferimento alla Tabella 3, allegato 5, Parte terza, Sezione II del D.lgs 152/2006, bensì facendo riferimento ai criteri generali fissati in tale parte del D.lgs 152/2006 stesso. Quindi lo standard di qualità per tale “scarico” dovrà essere fissato in funzione del tipo e qualità del corpo idrico recettore, così come prevede la normativa di settore nazionale e comunitaria”. [29]

4.1 I presupposti della diluizione vietata.
A questo punto, val la pena ritornare sulla portata del divieto di diluizione, così come formulato dall’art. 101, comma 5 del T.U.A., secondo cui:“I valori limite di emissione non possono in alcun caso essere conseguiti mediante diluizione con acque prelevate esclusivamente allo scopo. Non è comunque consentito diluire con acque di raffreddamento, di lavaggio o prelevate esclusivamente allo scopo gli scarichi parziali di cui al comma 4, prima del trattamento degli stessi per adeguarli ai limiti previsti dalla parte terza dal presente decreto. L’autorità competente, in sede di autorizzazione, prescrive che lo scarico delle acque di raffreddamento, di lavaggio, ovvero impiegate per la produzione di energia, sia separato dagli scarichi terminali contenenti le sostanze di cui al comma 4.”.
A me sembra che la fattispecie individuata dalla norma non si attagli alla vicenda in esame, nella quale le acque di falda, lungi dall’essere “prelevate” con “l’esclusivo scopo”di diluire quelle reflue industriali”, sono pompate dalla falda e avviate al depuratore centrale, per essere trattate al fine di conformarle ai limiti di emissione accettabili, nel rispetto di una espressa previsione di legge (v. comma 3 dell’art. 243).
È la norma stessa, come accennato sopra, che riconosce tale facoltà/possibilità (tecnica) il cui esercizio non può – in alcun modo – essere ascritto ad una condotta fraudolenta dell’impresa, senza una evidente forzatura. Fermo restando che “… l’impianto delle acque reflue industriali esistente e in esercizio in loco….“ necessariamente doveva – e deve – rispettare (perché già in esercizio), prima ancora di ricevere le acque di falda, i limiti di accettabilità previsti per le acque industriali (e pertanto non era – e non è – sollecitato a ricorrere alla diluizione….) e deve essere “idoneo” a garantire tale rispetto anche dopo la ricezione e trattamento delle acque sotterranee.
Né sembra corretto invocare la seconda parte del comma 5, per cui : “Non è comunque consentito diluire con acque di raffreddamento, di lavaggio o prelevate esclusivamente allo scopo gli scarichi parziali di cui al comma 4, prima del trattamento degli stessi per adeguarli ai limiti previsti dalla parte terza dal presente decreto”, tenuto conto della assoluta estraneità della previsione al caso in esame (che non attiene agli scarichi parziali, su cui v. oltre, par. 4.2).
In definitiva, non mi pare che l’eccezione di diluizione vietata possa costituire un valido argomento contro il chiaro dettato del comma 3, dell’art. 242, ferma restando la preoccupazione (peraltro nota ma superata dal legislatore) che detto comma possa, in alcune evenienze, allontanarsi o contraddire la normativa sul rispetto degli standard di qualità dei corpi ricettori[30].
Come si è rilevato, sopra, non va dimenticato che l’art. 243 costituisce norma speciale, in deroga, all’interno della Parte IV del T.U.A. (v. retro, e, per la giurisprudenza, note 26 e 31).

4.2.L’idoneità tecnica dell’impianto di depurazione. Insussistenza della “miscelazione” e della nozione di “scarico parziale”.
Nel momento in cui la norma consente di utilizzare, per le acque di falda contaminate, l’impianto di depurazione preesistente, relativo alle acque reflue industriali, correttamente si preoccupa di richiedere la sua idoneità tecnica. Nel senso che, se l’impianto esistente riusciva a trattare il refluo industriale riportandolo all’interno delle concentrazioni di inquinanti previste e consentite dai limiti tabellari, il nuovo apporto di sostanze contaminanti, conferito, in aggiunta, dalle acque sotterranee, non deve causare il superamento di quei limiti.
I limiti tabellari, a seguito del cumulo del materiale liquido trattato (reflui industriali e acque sotterranee), andranno, comunque, rispettati, pena: l’inapplicabilità dei vantaggi arrecati dall’art. 243 (in via eccezionale e in deroga), l’assoggettamento al reato di cui all’art. 137 e l’obbligo di approntare un apposito “.. impianto di trattamento” delle acque sotterranee, ex commi 3 e 4[31], dell’art. 243.
Merita aggiungere altre tre considerazioni:
1) Nel momento in cui, il comma 3 dell’art. 243 consente esplicitamente che, nello stesso impianto di trattamento delle acque reflue industriali, vengano immesse, agli stessi fini di trattamento, anche le acque di falda contaminate, non v’è dubbio che il legislatore non solo abbia consapevolmente e logicamente previsto e consentito la miscelazione fra i due flussi, ma anche ritenuto che il corpo ricettore (compresa la fognatura) fosse sufficientemente tutelato dal rispetto dei limiti di emissione (comuni ad entrambe le acque) imposti allo scarico finale (limiti previsti, in origine, per le sole acque reflue industriali);
2) né potrebbe essere invocata, nel caso specifico, la disciplina degli scarichi parziali di cui agli artt. 101, commi 4[32] e 108, comma 5. Per il primo disposto (art. 101), si può rilevare che le acque di falda – per la loro provenienza e per l’ontologica differenza con gli “scarichi parziali” di un unitario processo produttivo – non possono essere confuse e ricondotte nella nozione giuridica relativa a questi ultimi.
Questo non esclude, ovviamente, che l’Autorità amministrativa competente possa imporre alle acque sotterranee, prima dell’accesso al depuratore centrale delle acque reflue industriali, un pre-trattamento che può essere compiuto all’interno e nel rispetto “del sistema stabile di collettamento”, senza che dette acque siano fatte fuoriuscire da esso, per essere riversate in un’area di deposito temporaneo o di stoccaggio ai fini predetti.[33]
Quanto all’art. 108, comma 5, una volta esclusa, per le acque sotterranee, la qualifica di “scarichi parziali”, per quanto appena rilevato, viene meno altresì il presupposto (tecnico-giuridico) in base al quale la medesima l’Autorità possa imporre alle acque di falda, in quanto scarichi parziali, che “siano tenute separate dallo scarico generale e disciplinate come rifiuti”.
In conclusione, la fattispecie di cui al comma 3 dell’art. 243 non ricade, in modo evidente, nel comma 5, dell’art.108 (sulla separazione dei due scarichi), redendolo inapplicabile alle acque sotterranee.

5. Sull’obbligo di integrare i limiti di emissione con le prescrizioni sugli obiettivi di qualità dei corpi ricettori: obiezioni possibili.
Alla lettura proposta dalla dottrina, da ultimo richiamata[34] – in ordine all’obbligo di contestuale applicazione della normativa sugli obiettivi di qualità dei corpi ricettori, si potrebbe obiettare che:
1) Il dato testuale dell’art. 243 non prevede espressamente il rispetto degli standard di qualità del corpo ricettore in cui lo scarico è rilasciato. Si potrebbe sostenere che ”l’assimilazione” delle acque di falda (qualificabili “rifiuti allo stato liquido”, seconda la normativa delle bonifiche) alle acque reflue industriali è stata disposta dal legislatore proprio al fine di avvantaggiare il “soggetto responsabile” sottraendolo a qualsiasi altra disciplina (come quella della Parte IV) per assoggettarlo al solo Titolo III (“Tutela dei corpi idrici e disciplina degli scarichi”) della Parte III, e non anche al suo Titolo II (“Obiettivi di qualità”), cui non si rinvia.
Questa nuova definizione giuridica (di acque reflue anziché di rifiuti liquidi) non potrebbe non incidere, in base al diritto vigente, sulla qualificazione della sostanza (acque di falda) e, conseguentemente, sulla disciplina applicabile (degli scarichi e connessi limiti tabellari).
2) la ratio che lo sottende è quella (ricordata sopra) di agevolare (e non aggravare) le prescrizioni sul rilascio delle acque di falda, unitamente alle acque reflue industriali, negli impianti di trattamento nuovi o esistenti e in loco, per ovvi fini gestionali, economici e burocratici e assicurare, in tal modo, una significativa “semplificazione delle procedure” e:
3) la “certezza del diritto..” che la norma garantisce, come ammette la stessa A., porterebbe a escludere la concorrenza delle tre discipline, attese le difficoltà giuridiche insorte nella loro contestuale applicazione: sui limiti tabellari, sulla qualità dei corpi ricettori e sulle acque sotterranee come rifiuti liquidi.
In sostanza, la lettera della legge, oltre che il fine perseguito, parrebbero sufficientemente chiari e non vi sarebbe spazio, ai sensi dell’art. 12 delle Preleggi al codice civile[35], per aggiungere (in via esegetica….), ai valori della Tab. 3, allegato 5, della Parte terza, anche il rispetto della disciplina sugli standard di qualità dei corpi idrici, cui l’art. 243 non fa cenno (considerato poi che una tale lettura avrebbe ovviamente conseguenze penali in caso di inosservanza degli standard di qualità previsti in autorizzazione[36]).
4) Con l’ulteriore argomento che, se si consentissero integrazioni fra le (o sommatorie delle) varie discipline (relative agli scarichi, agli obiettivi di qualità, alla bonifica delle acque sotterranee[37]), oltre a cadere nella aporia logica di considerare le stesse acque sotterranee, contestualmente, scarichi di acque reflue e rifiuti allo stato liquido, si contraddirebbe l’introdotto criterio della “assimilazione” e, ad un tempo, si finirebbe per frustrare il chiaro intento del legislatore che è stato quello di agevolare, semplificandolo,il trattamento delle acque di falda e le procedure previste nei vari commi dell’art. 243 novellato.

5.1. Ragioni favorevoli a un concorso delle normative sui limiti di emissione e sugli obiettivi di qualità.
Ma tali deduzioni, pur nella loro intrinseca consistenza, mi appaiono – in un determinato ambito (quello della Parte III del T.U.A.[38]) – superabili, in una visione più ampia e sistematica delle orme cit., nella quale si tenga conto che “l’autorizzazione” allo scarico delle acque reflue industriali, unitamente alle acque sotterrane depurate (non può ma), deve [39]“… contenere ulteriori prescrizioni tecniche volte a garantire che lo scarico, ivi comprese le operazioni ad esso funzionalmente connesse, avvenga in conformità delle diposizioni della Parte terza[40] del presente decreto e senza che consegua alcun pregiudizio del corpo ricettore”, come dispone il comma 10, dell’art. 124.
Il richiamo espresso al corpo ricettore e a (tutta) la Parte terza impone all’interprete di tener conto di quanto dispone, in particolare, l’art. 76, sugli obiettivi di qualità ambientale[41] e, ancor più, l’art. 73, comma 2, del seguente, univoco tenore: “Il raggiungimento degli obiettivi indicati al comma 1 si realizza attraverso i seguenti strumenti:
a) l’individuazione di obiettivi di qualità ambientale e per specifica destinazione dei corpi idrici;
b) la tutela integrata degli aspetti qualitativi e quantitativi nell’ambito di ciascun distretto idrografico ed un adeguato sistema di controlli e di sanzioni;
c) il rispetto dei valori limite agli scarichi fissati dallo Stato, nonché la definizione di valori limite in relazione agli obiettivi di qualità del corpo recettore”.
Se queste sono le diposizioni che vanno richiamate (e rispettate) nella loro più vasta portata, è verosimile pensare che, nella Conferenza di servizi di cui all’art. 242, comma 7, la Provincia formuli le proprie prescrizioni tecniche e i limiti di emissione relative alle acque di falda – assimilate a quelle industriali – non solo tenendo conto dei limiti tabellari applicabili a questi ultimi, ma anche delle integrazioni imposte dalle caratteristiche del corpo ricettore, ex comma 10, dell’art. 124 (in funzione degli obiettivi di qualità ricordati, ex art. 73, comma 2).
Di tali indicazioni e determinazioni dovrà tener conto la Regione – ivi compresa l’applicazione della nuova disciplina vincolante (e di favore) introdotta dall’art. 243, novellato – nella sua decisione di approvazione del progetto di bonifica, adducendo, “…. nella delibera di adozione del provvedimento finale…. un’adeguata motivazione nel caso di opinioni dissenzienti espresse nella Conferenza di servizio…”, ai sensi dell’art. 242, comma 13, comprese quelle, per es., della Provincia, territorialmente competente che, in ipotesi, abbia espresso il proprio dissenso, con riferimento all’impianto preesistente ed in esercizio delle acque reflue industriali sito nell’area da bonificare, secondo la previsione del comma 3 dell’art. 243.

 


[1] V., oltre, note 2 e 3.
[2] Del seguente tenore: “Modifica all’articolo 243 del decreto legislativo n. 152 del 2006: “ 1. All’articolo 243 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, al comma 1, dopo le parole: «interventi di bonifica» sono inserite le seguenti: «o messa in sicurezza».
[3] A seguito di questo intervento, il comma primo recitava: ” 1. Le acque di falda emunte dalle falde sotterranee, nell’ambito degli interventi di bonifica o messa in sicurezza di un sito, possono essere scaricate direttamente o dopo essere state utilizzate in cicli produttivi in esercizio nel sito stesso, nel rispetto dei limiti di emissione di acque reflue industriali in acque superficiali di cui al presente decreto”.
[4] L’art. 41, della legge n. 98 detta: “L’articolo 243 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni, è sostituito dal seguente: «Art. 243 (Gestione delle acque sotterranee emunte).
1. Al fine di impedire e arrestare l’inquinamento delle acque sotterranee nei siti contaminati, oltre ad adottare le necessarie misure di messa in sicurezza e di prevenzione dell’inquinamento delle acque, anche tramite conterminazione idraulica con emungimento e trattamento, devono essere individuate e adottate le migliori tecniche disponibili per eliminare, anche mediante trattamento secondo quanto previsto dall’articolo 242, o isolare le fonti di contaminazione dirette e indirette; in caso di emungimento e trattamento delle acque sotterranee deve essere valutata la possibilità tecnica di utilizzazione delle acque emunte nei cicli produttivi in esercizio nel sito, in conformità alle finalità generali e agli obiettivi di conservazione e risparmio delle risorse idriche stabiliti nella parte terza.
2. Il ricorso al barrieramento fisico è consentito solo nel caso in cui non sia possibile conseguire altrimenti gli obiettivi di cui al comma 1 secondo le modalità dallo stesso previste.
3. Ove non si proceda ai sensi dei commi 1 e 2, l’immissione di acque emunte in corpi idrici superficiali o in fognatura deve avvenire previo trattamento depurativo da effettuare presso un apposito impianto di trattamento delle acque di falda o presso gli impianti di trattamento delle acque reflue industriali esistenti e in esercizio in loco, che risultino tecnicamente idonei.
4. Le acque emunte convogliate tramite un sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il punto di prelievo di tali acque con il punto di immissione delle stesse, previo trattamento di depurazione, in corpo ricettore, sono assimilate alle acque reflue industriali che provengono da uno scarico e come tali soggette al regime di cui alla parte terza.
5. In deroga a quanto previsto dal comma 1 dell’articolo 104, ai soli fini della bonifica, è ammessa la reimmissione, previo trattamento, delle acque sotterranee nello stesso acquifero da cui sono emunte. A tal fine il progetto di cui all’articolo 242 deve indicare la tipologia di trattamento, le caratteristiche qualitative e quantitative delle acque reimmesse, le modalità di reimmissione e le misure di controllo e monitoraggio della porzione di acquifero interessata; le acque emunte possono essere reimmesse anche mediante reiterati cicli di emungimento, trattamento e reimmissione, e non devono contenere altre acque di scarico ne’ altre sostanze ad eccezione di sostanze necessarie per la bonifica espressamente autorizzate, con particolare riferimento alle quantità utilizzabili e alle modalità d’impiego.
6. Il trattamento delle acque emunte deve garantire un’effettiva riduzione della massa delle sostanze inquinanti scaricate in corpo ricettore, al fine di evitare il mero trasferimento della contaminazione presente nelle acque sotterranee ai corpi idrici superficiali”.
[5] Sulle problematiche poste dall’art. 243, precedente dettato, si legga, da ultimo, Consiglio di Stato, sentenza n. 5857 del 6 dicembre 2013, annotata da S. Giampietro, Acque di falda: rifiuti? Falso allarme – in lexambiente.it, a curadi L. Ramacci, del 24.2.2014 – la quale conclude nel senso che: “… La tesi sostenuta dal Consiglio di Stato – di una generale riconducibilità delle acque emunte, di cui all’art. 243, alla disciplina dei rifiuti – sconta sicuramente il fatto di essersi pronunciato prima dell’entrata in vigore della modifica operata dal “decreto del fare” e, pertanto, non è sostenibile oggi, in vigenza della novella dell’art. 243, che ha chiarito, in modo univoco, la disciplina ad esse applicabile. In tal senso, la recente riformulazione della norma non fa che confermare quanto sostenuto dalla giurisprudenza maggioritaria – anche in relazione alla precedente versione (del d.lgs. n. 4/08) – in merito alla ratio legis che è quella di fissare una disciplina speciale per la gestione della acque di falda emunte (v., in questo senso, TAR Napoli 1398/2012). In conclusione: perché le acque emunte siano soggette al regime di cui alla parte terza occorre che vengano convogliate tramite un sistema stabile di collettamento che collega, senza soluzione di continuità, il punto di prelievo di tali acque con il punto di immissione delle stesse, ai sensi dell’art. 243, comma 4. Collegamento diretto che, nel caso esaminato in decisione, non esisteva”.Per la dottrina e giurisprudenza precedente, si rinvia, a La nuova gestione dei rifiuti (a cura di P. Giampietro), Il Sole 24 Ore, 2009. In particolare, sulla nozione di scarico e rifiuto allo stato liquido, v. P. Costantino, op. cit., pagg. 66 e ss. ; quanto alla disciplina delle acque di falda, v. P. Giampietro, pagg. 330 e ss., con richiami anche dei pareri ministeriali, orientati nel senso della qualifica delle acque di falda come rifiuti, nonostante il dettato dell’art. 243, sulla base di argomenti che non sembrano decisivi, come rilevato, più avanti, nel testo. V., altresì, le puntuali osservazioni di L. Musmeci, in Rifiuti, nn. 129/30, del 2006 , pag. 57 e ss. e in Rifiuti e bonifiche, Edizioni ambiente, 2008, pag. 37 e ss. Più di recente, cfr. P. Fimiani, La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, 2011, pag. 109 e ss., sulle nozioni fondamentali di “acque di scarico e rifiuti liquidi”; sul concetto generale di “assimilabilità”, “miscelazione”, ecc., con esaurienti ed aggiornati richiami di giurisprudenza e dottrina.
[6] In tema, per la considerazione congiunta dei profili tecnici e giuridici, vedi (a cura di S.Tunesi e Q. Napoleoni) Tecnologie di bonifica dei siti inquinati, Il Sole 24 Ore (Libri di Ambiente e Sicurezza), 2003, Parte III e IV (sulle barriere e sul pump and treat, v. pagg. 243/352); M. Pernice e S. Tunesi, La bonifica dei siti inquinati, Il Sole 24 Ore, 2000, con un appendice normativa comprensiva dei decreti del ministero dell’ambiente sulle perimetrazioni dei siti di interesse nazionale; L. Butti, M. Farina, A. Merlin, F. Peres, Siti contaminati, Il Sole 24 Ore 2001, (v. pagg. 225 e ss.; in particolare cfr. Tecniche di bonifica a cura di F.M.K. Seelman); F. Giampietro (a cura di), “La bonifica dei siti contaminati – I nodi interpretativi giuridici e tecnici, Milano, 2001, Parte III, Profili tecnici.
[7] V. la nota precedente per il profilo tecnico delle indicate misure. Con riferimento al barrieramento fisico, il Consiglio di Stato – in linea con il dettato normativo che disciplina unitariamente le acque di falda emunte nel corso di interventi di bonifica o di M.I.S.E. – ha recentemente evidenziato che “la definizione di messa in sicurezza d’emergenza (c.d. m.i.s.e. ), oggi contenuta nell’art. 240, comma 1, lett. m) , d.lgs. n. 152 del 2006, ma ieri all’art. 2, comma 1, lett. d) , d.m. n. 471 del 1999, è di ampiezza tale da includere anche la possibilità di ricorrere a misure di contenimento fisico della falda, al fine precipuo della bonifica e del ripristino ambientale del sito contaminato, quando si versa in una situazione di dominante urgenza. In base alla detta disposizione del d.m. n. 471 del 1999, per messa in sicurezza d’emergenza si intendeva ‘ogni intervento necessario ed urgente per rimuovere le fonti inquinanti, contenere la diffusione degli inquinanti e impedire il contatto con le fonti inquinanti presenti nel sito, in attesa degli interventi di bonifica e ripristino ambientale o degli interventi di messa in sicurezza permanente’. Oggi, in base alla detta disposizione del d.lgs. n. 162 del 2006, per messa in sicurezza d’emergenza si intende ‘ ogni intervento immediato o a breve termine, da mettere in opera nelle condizioni di emergenza di cui alla lett. t) in caso di eventi di contaminazione repentini di qualsiasi natura, atto a contenere la diffusione delle sorgenti primarie di contaminazione, impedirne il contatto con altre matrici presenti nel sito e a rimuoverle, in attesa di eventuali ulteriori interventi di bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente ‘. Le definizioni normative appena trascritte consentono entrambe di fare rientrare nel concetto di messa in sicurezza d’emergenza ogni intervento immediato atto a contenere la diffusione della contaminazione e impedirne il contatto con altre matrici presenti”, cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 20 maggio 2014, n. 2526.
[8] Secondo il comma 3, dell’art. 243, che suona: “Ove non si proceda ai sensi dei commi 1 e 2, l’immissione di acque emunte in corpi idrici superficiali o in fognatura deve avvenire previo trattamento depurativo da effettuare presso un apposito impianto di trattamento delle acque di falda o presso gli impianti di trattamento delle acque reflue industriali esistenti e in esercizio in loco, che risultino tecnicamente idonei”.
[9] In questo senso la Provincia di Roma, in un caso di sito da bonificare, ha negato l’assimilazione delle acque di falda contaminate alle acque reflue industriali, in una vicenda in cui la conduttura delle acque di falda contaminate – a suo dire – non le avrebbe convogliate, “ senza soluzione di continuità, dal punto di prelievo al punto di immissione” (come prescrive il comma 4), ma le faceva transitare, in precedenza, presso un impianto di trattamento delle acque reflue industriali esistente ed in esercizio in loco, prima di essere reimmesse in acque superficiali. Adducendo, in particolare, l’assenza delle condizioni di cui al comma 4 cit., e non ritenendo applicabile la previsione del comma 3, sopra commentata. In particolare si fa rilevare che a) le acque di falda, provenienti da un barrieramento idraulico, dopo essere pretrattate in situ, sono immesse in un depuratore consortile di acque reflue industriali, pur nell’esistenza e vigenza di un progetto di bonifica approvato e in corso di realizzazione, e che b) nel depuratore consortile preesistente, vengono immesse – oltre alle acque reflue industriali – acque meteoriche, acque di prima pioggia, acque reflue domestiche, in presunto contrasto con l’art. 101, comma 5, perché si realizzerebbe una diluizione degli scarichi. Si ritiene, pertanto, che, ove si voglia ottenere l’autorizzazione provinciale, in via ordinaria, con riferimento a tutte le tipologie di acque indicate (escluse quelle di falda), occorre procedere preliminarmente: c) alla separazione dalle acque di falda (da barrieramento idraulico) dalle altre tipologie di immissioni (di acque industriali, meteoriche, domestiche, ecc.); successivamente le acque di falda dovrebbero essere convogliate, tramite un sistema stabile di collettamento che colleghi, senza soluzione di continuità, il punto di prelievo con il punto di immissione delle stesse in corpo ricettore, previo trattamento autonomo di depurazione, in ottemperanza – appunto – alle disposizioni del comma 4 dell’art. 243, novellato. L’autorizzazione di quest’ultimo scarico sarebbe di competenza regionale, ex art. 242, comma 7, T.U.A.
[10] V., per la definizione del parametro delle migliori tecniche disponibili, l’art. 5, comma 1, lett. l-ter. del TUA.
[11] Ci si potrebbe chiedere che significato assuma tale generica “non possibilità”. Impossibilità tecnica o anche solo – o in parte – economico-finanziaria? Il parametro resta vago e pertanto prevedibile fonte di dubbi e contenzioso.
[12] V. comma 2, dell’art. 243.
[13] Come adombrato dalla Provincia di Roma ricordata, retro, a nota 9.
[14] Su tale differenziazione definitoria si rimanda agli AA citati a nota 5. L’art. 185, comma 2, lett. a) esclude dal regime dei rifiuti, le acque di scarico che sono definite dall’art. 74, comma 1, lett. ff).
[15] V. P. Fimiani, La tutela penale cit. pag. 109. Il criterio per distinguere la natura dello scarico, secondo il parametro della “assimilabilità”, è essenzialmente qualitativo (e non quantitativo, come prevedono alcune leggi regionali) e si fonda sulla qualità dello scarico (normalmente rilasciato da un insediamento abitativo), in relazione cioè alla sua origine ovvero al processo che dà luogo alla sua formazione, anche ricorrendo, se del caso, alla caratterizzazione analitica. In giurisprudenza, cfr. Cass. pen. 3 aprile 2012, n. 12470; ID 11 gennaio 2010, n. 772; ma la distinzione, in esame, la ritroviamo ben scolpita già a partire da Cass. pen., Sez. Un. n.10/1987, Ciardi.
[16] Si legga, per es. l’art. 101, comma 7, per l’assimilazione alle acque reflue domestiche degli scarichi da imprese di coltivazione del terreno, di allevamento del bestiame, ecc.; v., altresì, l’art.113, per le acque meteoriche di dilavamento e di prima pioggia ove contaminate da sostanze pericolose, ecc.
[17] Che recita: “Salvo quanto previsto dall’articolo 112, ai fini della disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni, sono assimilate alle acque reflue domestiche le acque reflue:
a) provenienti da imprese dedite esclusivamente alla coltivazione del terreno e/o alla silvicoltura;
b) provenienti da imprese dedite ad allevamento di bestiame… omissis…..
e) aventi caratteristiche qualitative equivalenti a quelle domestiche e indicate dalla normativa regionale;
[18] Cfr., per es., Tar Sardegna, sez. II, n. 549 del 21.04.2009; Tar Sicilia, Palermo, sez. I, n. 540, del 20.03.2009; Tar Toscana, sez. II, 19.05.2010, n. 1523. Più di recente, sempre con riferimento alla pre-vigente versione dell’art. 243 cit., si veda T.A.R. Veneto, sez. III, 25.02.2014, n. 255, dove si legge che: “… Con riguardo all’art. 243, d.lg. 3 aprile 2006 n. 152, nel testo in cui prevedeva che le acque di falda emunte dalle falde sotterranee, nell’ambito degli interventi di bonifica di un sito, possono essere scaricate, direttamente o dopo essere state utilizzate in cicli produttivi in esercizio nel sito stesso, nel rispetto dei limiti di emissione di acque reflue industriali in acque superficiali di cui al presente decreto”, deve ritenersi che le acque emunte di regola devono essere ricondotte all’interno della categoria dei rifiuti liquidi, non potendosi in linea di principio ritenere che la norma di cui all’art 243 citato consenta una equiparazione tout court tra le acque di falda emunte nell’ambito di interventi di bonifica di siti inquinati e le acque reflue industriali: infatti, il predetto art. 243, limitandosi a consentire la possibilità di autorizzare lo scarico nelle acque di superficie delle acque emunte dalle falde sotterranee, nell’ambito degli interventi di bonifica o messa in sicurezza di un sito, a condizione che siano rispettati gli stessi limiti di emissione delle acque reflue industriali, non è idoneo ad incidere sulla specialità e tassatività della disciplina, di diretta derivazione comunitaria, sui rifiuti, che esclude espressamente l’assimilabilità delle acque emunte in falda a quelle reflue industriali, alla luce dei codici CeR contenuti nella decisione della Commissione Europea 3 maggio 2000 n. 532 – 00/532/CE (codici CeR 19.03.07 e 19.03.08, che individuano le acque di falda emunte nell’ambito di attività di disinquinamento quali rifiuti liquidi)”.
[19] In questo senso e per approfondimenti, v. F. Anile, Quale regime giuridico per le acque di falda emunte? (Esame della giurisprudenza formatasi sull’art. 243, D.Lgs. N. 152/2006), in lexambiente.it.
[20] V., per tutte, CGCE 15.6.2000, Arco, in causa C-418/97.
[21] Come osservato per es. dalla Provincia di Roma citata a nota 9.
[22] Per un caso analogo di depuratore consortile “idoneo”, che tratta più scarichi separati – dei consorziati – per riportarli ai previsti limiti di emissione, v. l’art. 124, comma 2.
[23] Anche in ipotesi in cui intervenga un pretrattamento delle acque di falda, pretrattamento che non interrompa però il sistema unico di collettamento.
[24] V., per es., la voce tecnica di “sistema di collettamento” riportata da wikipedia. Sulla nozione di scarico, in senso giuridico, v., ex multis, Cass. Pen. Sez. III, 22.6.2011, n. 25037. Detta definizione prescinde dalla natura inquinante o meno dell’effluente ed è indifferente se esso sia sottoposto o meno a preventivo trattamento di depurazione, prima della sua immissione nel corpo ricettore.
[25] Trattasi di nozioni pacifiche in dottrina e giurisprudenza, già a partire dalle Sez. Unite 13 dicembre 1995 n. 12310, ud. 27 settembre 1995, Forina, rv. 202899. In seguito, v. Cass. Pen., Sez. III, 29.03.2000, n. 5000; Cass. Pen. Sez. III, 17.12.2002, n. 8758; Cass. Pen. Sez. III, 11.03.2004, n. 18347. Valorizza tale criterio (della continuità) da ultimo, il Consiglio di Stato, 6 dicembre 2013, n. 5857, cit. che lo descrive in questo passaggio ”… Come già aveva chiarito la giurisprudenza, recepita poi con il d.lgs. n. 4 del 2008, essenziale, a tal fine, è la continuità dell’immissione, mediante un sistema stabile di collettamento, dal luogo della produzione fino all’esito finale,condizioni che non si verificavano, all’epoca dei fatti, nella fattispecie in esame, in cui le acque di falda emunte dal sito contaminato non passavano direttamente dalla falda al corpo recettore, ma erano convogliate provvisoriamente in appositi contenitori per essere poi trasportate all’impianto di depurazione consortile di Porto Torres al fine dello smaltimento”.
Fatta salva la particolare fattispecie, in deroga, di cui all’art. 243, Il Consiglio di Stato riconduce, in via generale, le acque di falda contaminate nella categoria dei rifiuti allo stato liquido per le seguenti ragioni: “… E’ quindi da disattendere l’assunto della società appellante tendente ad escludere a priori, ai sensi dell’art. 243 d.lgs. 152/06, la riconduzione delle acque emunte in attività di disinquinamento della falda dal regime dei proprio dei rifiuti liquidi: al contrario, l’individuazione del regime normativo concretamente applicabile non può non tenere conto della particolare natura dell’oggetto dell’attività posta in essere, siccome individuati dal legislatore quali rifiuti liquidi, come emerge dalla classificazione attraverso i codici CER allegati al decreto. L’allegato D alla parte quarta del medesima d.lgs, nell’elencare i rifiuti conformemente all’articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE e all’articolo 1, paragrafo 4, della direttiva 91/689/CEE relativa ai rifiuti pericolosi di cui alla decisione della Commissione 2000/532/CE del 3 maggio 2000 e alla direttiva del Ministero dell’ambiente 9 aprile 2002, ha infatti espressamente previsto, sub 19.13.07 e 19.13.08, i “rifiuti liquidi acquosi e concentrati acquosi prodotti dalle operazioni di risanamento delle acque di falda”: la stessa Syntial ha ricondotto i reflui derivanti dalle operazioni di cui è causa ai rifiuti considerati dal codice 19.13.08. Anche per tale ragione, quindi, risulta smentita l’aprioristica omologazione, dedotta dalla società appellante, dei reflui derivanti da operazioni di bonifica alle acque reflue industriali, come definite chiaramente dall’art. 74, comma 1 lett. h) del d.lgs. citato (con ciò dovendosi discostare dalle conclusioni alle quali era pervenuto questo Consiglio di Stato nella sentenza di questa stessa sezione 8 settembre 2009, n. 5256). …. Le acque reflue emunte nelle operazioni di bonifica devono – alla luce di una interpretazione sistematica del quadro normativo nazionale e comunitario (l’art. 1 lett. a, della direttiva n. 2006/12/CE non consente dubbi al proposito (come ha evidenziato il Tar) – essere considerate rifiuti (restando affidato al solo regime degli scarichi lo sversamento derivante dagli ordinari cicli produttivi: e tali non sono, certamente, le acque di falda emunte nell’ambito dell’attività di disinquinamento, che non derivano certamente ed in via diretta dagli ordinari cicli produttivi)…”. Sulla non decisività dei criteri giuridici indicati, ove si considerino le acque di falda sempre e comunque rifiuti liquidi, cfr. P. Giampietro,La Nuova gestione dei rifiuti cit. pag. 332-33; F. Anile, Quale regime giuridica per le acque di falda… cit.”, pag. 5. V. anche retro, par. 3, in fondo.
[26] In tema, F. Sforza, attento cultore della materia, rileva che “… tecnicamente, l’entrata in un distinto sistema non significa interrompere la continuità della condotta se i due sistemi sono connessi in maniera stabile e continua. Se le acque non vengono prelevate e trasportate, al di fuori del collettamento, non ricorrono le condizioni per l’esclusione dalla disciplina della Parte III”. In definitiva, in questo caso, qualora vi sia “.. un collettamento stabile e continuo (cioè un insieme di chiusini, vasche, condotte, pompe di rilancio atte alla raccolta delle acque destinate allo scarico) – e un altrettanto stabile e continuo convogliamento all’impianto di depurazione e quindi allo scarico finale – ricorrono le condizioni di assoggettabilità alla Parte III. Il principio discriminante è che vi sia un percorso – ben definito, stabile e identificato in sede di autorizzazione – che collega l’origine del refluo e il corpo recettore.” Il problema di una diversa qualificazione (come “rifiuti liquidi”), potrebbe sorgere semmai “… quando, ad esempio un eventuale “troppo pieno” della conduttura o di una vasca di rilancio tracima in modo incontrollato e si riversa sul suolo o ruscella fino ad attingere un vicino corso d’acqua”.
[27] V. nota 9.
[28] Le frasi fra virgolette sono di L. Musmeci, Bonifica di siti cit. pag. 38. Nel senso che la qualità “tabellata” o fissata con l’analisi di rischio sia superiore – cioè più elevata (o severa) – di quella posta nelle tabelle relative alle acque reflue industriali, con l’effetto di diluizione di queste ultime. Tant’è che la stessa A. aggiunge che”… E’ intuibile come una tale prescrizione, se da una parte fornisce un elemento di certezza di diritto, dall’altra sembra una contraddizione tecnica, in quanto, generalmente, le acque profonde drenano verso corpi idrici superficiali (fiume, lago, mare) e quindi sembrerebbe inutile doverle emungere per poi scaricarle “tal quali” nello stesso corpo idrico recettore, a meno di considerare il fattore “diluizione”.
[29] A queste conclusioni perviene L. Musmeci, op. cit. pag. 38. Anche la Provincia di Roma (v. nota 9) prospetta e paventa un distinto caso di “diluizione” quando ci si trovi di fronte a delle acque di falda con alte portate e bassa concentrazione di inquinanti (provenienti dagli impianti, per es. di MISE), che vanno a diluire le acque reflue industriali eventualmente più inquinate.
[30] L. Musmeci ricorda, in op. cit., pag. 39, che, per i siti di interesse nazionale, “…. si sta adottando il criterio che i limiti vadano fissati caso per caso al fine di determinare gli standard di qualità per le acque emunte, trattate e da scaricare..” nelle seguenti circostanze: 1) “nel caso in cui esiste un piano regionale che fissa i limiti degli scarichi industriali compatibili con gli obiettivi di qualità dei corpi idrici” (tali limiti valgono anche per le acque emunte); 2) se non c’è il piano di tutela e i relativi limiti, deve valere un principio di cautela ambientale da recepire nel provvedimento autorizzatorio dello scarico che, ricadendo nel procedimento di bonifica di interesse nazionale, è riservato al Ministero dell’ambiente; 3) in ogni caso, vengono acquisite tutte le informazioni dalle autorità localicompetenti sul corpo ricettore ai fini di valutare la compatibilità dello scarico nel corpo ricettore; 4) ove non ricorrono le condizioni sub 1, occorrerà comunque prevedere un trattamento adeguato in base all’approccio delle migliori tecniche disponibili a costi accettabili.”
Non è questa la sede per approfondire la conformità di questa prassi (comunque anteriore alla modifica dell’art. 243 del 2013) a quanto dispone, in modo vincolante, il comma 3 di quest’ultimo articolo – il quale si limita a richiedere il rispetto dei limiti di emissione per le acque reflue industriali anche con riferimento alle acque di falda. Si consideri, comunque, che l’art. 252, comma 4 (sui SIN) rinvia all’applicazione della “procedura di bonifica di cui all’art. 242” anche per i siti di interesse nazionale (e dunque parrebbe ricomprendere l’art. 243, comma 3, fatta salva la competenza ministeriale).
Ciò che si può affermare, con sicurezza, è chele prassi adottate nell’ambito di procedure speciali (come quella delle bonifiche dei siti nazionali) non possono giustificare, sul piano giuridico, una deroga all’art. 243, che regola una fattispecie diversa: la procedura ordinaria di bonificadei siti contaminati.
Resta comunque fermo, ai fini di una seria protezione del corpo ricettore, che le previsioni del comma 3 dell’art. 243 vanno lette e coordinate con il comma 6, per il quale: “ Il trattamento delle acque emunte deve garantire un effettiva riduzione della massa delle sostanze inquinanti scaricate in corpo ricettore, al fine di evitare il mero trasferimento della contaminazione presente nelle acque sotterranee ai corpi idrici superficiali”.
Questa importante affermazione di principio – che sembra valere per tutte le situazioni regolate dai precedenti commi (anche se appare più direttamente riferita al comma 5 sulla “… reimmissione delle acque sotterranee nell’acquifero da cui sono emunte”) – in relazione alla fattispecie del comma 3, può essere intesa in due modi:
a) come regola sottintesa (e realizzata) dal doveroso rispetto dei limiti di emissione (degli scarichi di acque reflue industriali cui le acque di falda sono assimilate) oltre che dall’idoneità tecnica del depuratore esistente;
b) ovvero come prescrizione autonoma e aggiuntiva (ai limiti tabellari) che imponga – ove il trattamento depurativo del comma 3 non garantisca “… una effettiva riduzione della massa delle sostanze inquinanti scaricate in corpo ricettore” ma si risolva in un mero “trasferimento della contaminazione presente nelle acque sotterranee nei corpi idrici superficiali” – misure integrative di salvaguardia (della qualità ambientale dei corpi idrici) cioè ulteriori trattamenti più adeguati rispetto alla sola conformità ai valori di tabella.
Sulla natura “speciale” dell’art. 243, rispetto alla nozione ordinaria di scarico” e “sull’intenzione del Legislatore di riferirsi alla normativa sugli scarichi idrici e non a quella sui rifiuti liquidi”, v., in termini, TAR Sicilia, Catania, Sez. 1, 29 gennaio 2008, n. 207. Il Tar Friuli-Venezia Giulia, Sez. I, 26 maggio 2008, n. 301 – prima ancora della novella del 2013 (e dunque sulla precedente versione dell’art. 243) – “smentisce” motivatamente gli orientamenti ministeriali (sulla gestione delle acque di falda come rifiuti), in un caso di scarico in mare di acque sotterranee, emunte mediante una conduttura preesistente ed autorizzata, in questi termini: «…. l’art. 243 del D.L.vo n. 152/06 cit. …… consente che le acque emunte dalle falde sotterranee, nell’ambito di interventi di bonifica, vengano scaricate, direttamente o dopo essere state utilizzate in un ciclo produttivo (come nel caso, a fini di raffreddamento) in acque superficiali, ovviamente nel rispetto dei limiti di emissione delle acque reflue industriali »; analogamente, il TAR Calabria, 23 maggio 2008, nn. 1068 e 1069, contesta «…. la pretesa ministeriale, secondo cui tutte le acque di falda prelevate dal sottosuolo devono essere gestite come rifiuti” perché questa soluzione interpretativa “… comporterebbe il loro allontanamento dal sito a mezzo di autobotti ed il loro conferimento ad un impianto autorizzato allo smaltimento di rifiuti liquidi speciali. Sennonché una tale prescrizione è contrastante con le previsioni contenute nell’art. 243 del d. Lgs. n. 152/2006, ove invece, è espressa l’opzione secondo cui le acque di falda emunte dalle falde sotterranee nell’ambito degli interventi di bonifica di un sito, possono essere scaricate, direttamente o dopo essere state utilizzate in cicli produttivi in esercizio nel sito stesso, nel rispetto dei limiti di emissione di acque reflue industriali, in acque superficiali…… Alla luce delle richiamate disposizioni, appare senz’altro illegittima….. l’assimilazione ai rifiuti delle acque reflue emunte dalla falda».
[31] Merita rilevare che il comma 4 cit. non impone espressamente un “apposito” impianto di depurazione e, su questo punto, non contraddice la previsione del comma 3 che, come indicato, acconsente anche all’uso di un depuratore preesistente e già in uso per gli scarichi industriali. V., oltre, nel testo.
[32] Che recita: “L’autorità competente per il controllo è autorizzata ad effettuare tutte le ispezioni che ritenga necessarie per l’accertamento delle condizioni che danno luogo alla formazione degli scarichi. Essa può richiedere che scarichi parziali contenenti le sostanze di cui ai numeri 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 12, 15, 16, 17 e 18 della tabella 5 dell’allegato 5 alla parte terza del presente decreto subiscano un trattamento particolare prima della loro confluenza nello scarico generale”.
[33] Da un punto di vista tecnico e giuridico, il riversare le acque emunte in serbatoi o vasche, per un primo trattamento, non comporta né significa interrompere la continuità della condotta. Insomma: se le acque non vengono prelevate e trasportate al di fuori del “sistema di collettamento”, non ricorrono le condizioni per l’esclusione dalla disciplina della Parte III.
[34] V. note 29, 30 e 31.
[35] Il cui comma primo detta: “ Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”.
[36] Della non applicabilità delle disposizioni della Parte IV si è già detto, fatto salvo il tema delle competenze autorizzatorie – se della Provincia o della Regione – su cui torneremo in altra occasione.
[37] Sul concorso della disciplina fra scarichi delle acque reflue e quella sulla gestione dei rifiuti, in cui far rientrare dette acque. V., per approfondimenti critici, F. Anile, op. cit. passim.
[38] Sui rapporti con la disciplina delle bonifiche si è già detto, retro.
[39] L’obbligo nasce dal fatto che il comma 10 dell’art. 124 coniuga il verbo “contenere” (con riferimento all’autorizzazione) al presente (“contiene”): il che implica un dovere – e non una facoltà -del destinatario del precetto di rispettare tutte le disposizioni della Parte III, compreso il suo Titolo II.
[40] Cioè di tutte le disposizioni pertinenti ed applicabili: v. oltre nel testo.
[41] Il quale detta”: “Disposizioni generali”:
1. Al fine della tutela e del risanamento delle acque superficiali e sotterranee, la parte terza del presente decreto individua gli obiettivi minimi di qualità ambientale per i corpi idrici significativi e gli obiettivi di qualità per specifica destinazione per i corpi idrici di cui all’articolo 78, da garantirsi su tutto il territorio nazionale.
2. L’obiettivo di qualità ambientale è definito in funzione della capacità dei corpi idrici di mantenere i processi naturali di autodepurazione e di supportare comunità animali e vegetali ampie e ben diversificate.
3. L’obiettivo di qualità per specifica destinazione individua lo stato dei corpi idrici idoneo ad una particolare utilizzazione da parte dell’uomo, alla vita dei pesci e dei molluschi.
4. In attuazione della parte terza del presente decreto sono adottate, mediante il Piano di tutela delle acque di cui all’articolo 121, misure atte a conseguire gli obiettivi seguenti entro il 22 dicembre 2015;
a) sia mantenuto o raggiunto per i corpi idrici significativi superficiali e sotterranei l’obiettivo di qualità ambientale corrispondente allo stato di “buono” omissis..
6. Il Piano di tutela provvede al coordinamento degli obiettivi di qualità ambientale con i diversi obiettivi di qualità per specifica destinazione.
7. Le regioni possono definire obiettivi di qualità ambientale più elevati, nonché individuare ulteriori destinazioni dei corpi idrici e relativi obiettivi di qualità”.

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