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L’autorizzazione unica per impianti di trattamento rifiuti e l’effetto di variante urbanistica: profili normativi e giurisprudenziali
di Oreste Patrone
Categoria: Rifiuti
L’autorizzazione unica per impianti di trattamento dei rifiuti solleva, da anni, rilevanti questioni interpretative in merito al rapporto tra pianificazione urbanistica e procedimento autorizzativo e alla sua capacità di produrre effetti diretti sull’assetto pianificatorio locale. In tale ambito, si è progressivamente consolidata – non senza resistenze dottrinali e oscillazioni giurisprudenziali – la tesi secondo cui l’approvazione del progetto da parte della conferenza di servizi, nell’ambito del procedimento unico dedicato, produce un effetto automatico di variante urbanistica.
Di fronte a un legislatore orientato alla concentrazione procedurale e alla semplificazione, la giurisprudenza si è spesso trovata nella posizione di dover bilanciare l’efficienza amministrativa con la salvaguardia dei principi urbanistici e partecipativi propri di una pianificazione intesa come espressione dell’autonomia locale. E poiché, come sappiamo, la giurisprudenza arriva quasi sempre a valle dei conflitti – quando le decisioni sono già state assunte – abbiamo provato a interrogarci sul perché questo istituto, la cosiddetta variante urbanistica automatica o comportata, continui a suscitare dibattiti e resistenze.
Origini e trasformazioni: dalla programmazione urbanistica prescrittiva alla procedura autorizzativa ad efficacia conformativa
Per comprendere appieno la portata dell’attuale disciplina, è necessario indagarne le radici storiche e ripercorrerne sinteticamente l’evoluzione.
Il D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915 – primo tentativo organico di regolazione della materia – nel disciplinare il regime delle autorizzazioni, allora previsto unicamente per le discariche, richiedeva che, in sede istruttoria, fosse accertata la rispondenza del sito ai requisiti stabiliti ai sensi del decreto. Tali requisiti saranno tuttavia individuati solo due anni più tardi, con la Deliberazione del Comitato Interministeriale del 27 luglio 1984, la quale non faceva menzione della questione relativa alla conformità urbanistica, che si doveva pertanto ritenere già sussistente al momento della presentazione del progetto.
A sostegno di tale lettura, il paragrafo 4.2.3.2 della medesima Deliberazione prevedeva, alla lettera d), che il piano di recupero ambientale fosse conforme alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti o adottati (e quindi non ancora pienamente efficaci), e che tale piano dovesse essere allegato alla richiesta di autorizzazione alla discarica. Ne derivava, dunque, che nessun effetto conformativo implicito poteva essere attribuito all’atto autorizzativo.
Il primo segnale di discontinuità con questo assetto, si ebbe con il decreto-legge 28 febbraio 1987, n. 54, il quale, all’articolo 3, comma 4, introdusse la possibilità che l’approvazione del progetto potesse comportare una variante urbanistica implicita. Si trattava di un intervento emergenziale – non per niente recante “Disposizioni urgenti…” – motivato dalla crisi gestionale del settore dei rifiuti urbani che aveva investito il Paese negli anni Ottanta, aggravata dall’inerzia di strumenti urbanistici spesso inadeguati o superati.
Il medesimo decreto delineava, inoltre, i tratti embrionali di quella che sarebbe divenuta l’odierna conferenza dei servizi, prevedendo che ai fini istruttori fosse istituita un’apposita conferenza per esprimere parere in ordine alla valutazione degli interessi territoriali e degli effetti dell’intervento, anticipando, di fatto, lo spirito della legge 241/1990.
Con il D.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 [cd. Decreto Ronchi] l’effetto di variante veniva definitivamente consolidato, divenendo una componente strutturale del nuovo modello autorizzativo. La progressiva formalizzazione della conferenza dei servizi – dapprima nella legge n. 241/1990, poi nella legge n. 127/1997 – consentì di superare l’impostazione settoriale e frammentaria della fase istruttoria, in favore di un modello integrato.
Questa convergenza normativa – tra la semplificazione procedurale introdotta dalla legge generale sul procedimento amministrativo e la specializzazione settoriale del decreto sui rifiuti – ha determinato all’affermazione di un modello autorizzativo accelerato, imperniato sulla concentrazione degli atti e sulla contestuale valutazione degli interessi pubblici coinvolti, funzionale e ad elevata capacità conformativa e destinato a incidere profondamente sulla disciplina degli impianti ambientali e, più in generale, sulla governance del territorio.
Col decreto Ronchi si assiste all’affermazione di un nuovo paradigma: l’urbanistica locale perde il carattere prescrittivo e autonomo che aveva avuto fino a quel momento, per trasformarsi in un quadro flessibile e modulabile, suscettibile di essere adeguato in funzione di scelte procedimentali fondate su interessi pubblici prevalenti. Ciò consentiva, da un lato, di evitare la paralisi amministrativa dovuta al mancato o tardivo adeguamento della pianificazione urbanistica; dall’altro, di assicurare l’effettività della funzione autorizzativa, sottraendola a una subordinazione meramente formale rispetto a strumenti urbanistici spesso datati o incoerenti con le nuove esigenze di sviluppo infrastrutturale. La variante urbanistica cessa quindi di essere un momento autonomo presupposto, precedente al procedimento amministrativo e diviene un effetto diretto di quest’ultimo, comportato del provvedimento autorizzativo.
Il modello delineato dall’art. 208 del D.lgs. 152/2006
Con il D.lgs. 152/2006, la disciplina dell’autorizzazione unica viene ulteriormente sistematizzata.
L’art. 208, comma 6, dispone infatti che “l’approvazione del progetto da parte della conferenza di servizi comporta, ove occorra, variante allo strumento urbanistico”. Il dato normativo è inequivoco nel riconoscere all’approvazione del progetto un effetto conformativo, sottratto a un autonomo procedimento di variante. Tuttavia, proprio l’ampiezza dell’effetto riconosciuto ha suscitato nel tempo un vivace e interessante dibattito giurisprudenziale.
Le oscillazioni della giurisprudenza amministrativa
In sede giurisprudenziale si sono nel tempo delineati due distinti orientamenti interpretativi.
Il primo, di segno più restrittivo e formatosi in una fase iniziale di applicazione della normativa, ammetteva l’effetto di variante urbanistica solo al ricorrere di condizioni. In questa prospettiva, l’autorizzazione rilasciata ai sensi dell’art. 208, comma 6, del D.Lgs. n. 152/2006 produce effetti sullo strumento urbanistico soltanto in presenza di un espresso assenso dell’Amministrazione comunale alla variante stessa. Si veda, in tal senso, TAR Piemonte, Sez. I, 13 aprile 2017, n. 480, che subordina l’effetto di variante all’approvazione comunale, negandone la portata automatica.
Il secondo orientamento, di affermazione più recente, valorizza la natura derogatoria dell’autorizzazione rispetto alla pianificazione urbanistica comunale. Esso riconosce che l’approvazione del progetto in sede di conferenza di servizi è di per sé sufficiente a superare ogni contrasto urbanistico, proprio in ragione della specialità del procedimento e della rilevanza pubblicistica dell’attività autorizzata. Emblematica in tal senso è Cons. Stato, Sez. IV, 28 giugno 2022, n. 5376, secondo cui il provvedimento autorizzativo, in quanto unico e conclusivo di un procedimento integrato, ha efficacia conformativa e sostitutiva, prevalendo sulle disposizioni urbanistiche comunali in funzione della realizzazione di un interesse pubblico primario quale la corretta gestione dei rifiuti.
In ogni caso, resta fermo il carattere temporaneo della variante urbanistica così prodotta, che mantiene la propria efficacia solo per la durata del provvedimento autorizzativo, eventualmente rinnovato, ma destinato a esaurirsi con la cessazione dell’attività. Lo ha ricordato di recente TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 23 dicembre 2024, n. 3767, chiarendo che la variazione urbanistica non assume natura definitiva, ma resta funzionalmente ancorata all’efficacia dell’autorizzazione unica cui accede.
Pur nel rispetto dei diversi approdi interpretativi offerti dalla giurisprudenza, si ritiene che la questione vada ricondotta entro un perimetro concettuale più saldo, che valorizzi la natura intrinsecamente pubblicistica dell’attività di gestione dei rifiuti. È su questo piano che si fonda l’analisi proposta nel paragrafo che segue, nella convinzione che il vero punto di equilibrio non risieda tanto nella ricostruzione del consenso comunale, quanto nel riconoscimento di un interesse pubblico che l’ordinamento stesso qualifica come tale, indipendentemente dall’identità del soggetto proponente.
Il nodo dell’interesse pubblico e le iniziative private
Se, nel caso delle opere pubbliche, l’interesse pubblico può ritenersi intrinsecamente connesso alla volontà politica espressa attraverso il mandato elettorale, e dunque ogni decisione dell’autorità pubblica trova una legittimazione democratica diretta, più complesso è il discorso per le iniziative riconducibili all’impresa privata. In questi casi, infatti, l’interesse pubblico non può considerarsi presunto.
Esiste, tuttavia, un’eccezione rilevante a questa logica ed è rappresentata dal settore della gestione dei rifiuti, il quale — pur potendo essere svolto da soggetti privati — è qualificato ex lege come servizio di pubblico interesse, sottratto alla necessità di una motivazione rafforzata e di forme autonome di deliberazione da parte della pubblica amministrazione. L’interesse pubblico, in questo ambito, risulta dunque presunto e non soggetto a preventiva verifica, in quanto riconosciuto direttamente dall’ordinamento come strutturalmente connesso alla funzione esercitata.
Questa impostazione, che trova fondamento già nell’impianto del D.P.R. 915/1982, affonda le sue radici in un periodo storico in cui la gestione dei rifiuti — prevalentemente urbani — era affidata ai Comuni, che la esercitavano in regime di privativa, qualificandola come funzione pubblica essenziale. Da allora, il passaggio a una sempre maggiore apertura al contributo di operatori privati, soprattutto nel settore dei rifiuti speciali, non ha modificato la sostanza della qualificazione pubblicistica del servizio, legittimando l’effetto di variante urbanistica anche in assenza di una deliberazione esplicita da parte degli enti titolari della pianificazione.
Considerazioni conclusive
La tensione tra le esigenze di efficienza amministrativa e la tutela delle prerogative comunali in materia di pianificazione, almeno in assenza di un intervento chiarificatore e risolutivo da parte del legislatore, è destinata ad alimentare un dibattito potenzialmente infinito. Pur in presenza di un impianto normativo che riconosce all’autorizzazione unica un effetto conformativo, la percezione di uno svuotamento del ruolo degli enti locali nelle scelte urbanistiche ha generato, anche in giurisprudenza, una certa instabilità interpretativa. Ne è derivato un equilibrio fragile, spesso più apparente che risolto, che riflette la natura quantistica del rapporto tra norma e pianificazione.
Un dibattito istituzionale che miri a un riallineamento interpretativo appare dunque auspicabile, se si vuole garantire — più ancora che la certezza del diritto, che non si ritiene in discussione — una piena coerenza tra i diversi livelli di governo del territorio. In attesa di un tale chiarimento, l’operatore giuridico è chiamato a muoversi in un terreno normativo complesso e spesso insidioso, orientando le proprie decisioni con l’affidamento che compete a chi, pur rispettando il dettato normativo, non rinuncia a interrogarne il significato, evitando quella forma di devozione letterale che talvolta finisce per confondere il diritto con un testo liturgico.
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L’autorizzazione unica per impianti di trattamento rifiuti e l’effetto di variante urbanistica: profili normativi e giurisprudenziali
di Oreste Patrone
L’autorizzazione unica per impianti di trattamento dei rifiuti solleva, da anni, rilevanti questioni interpretative in merito al rapporto tra pianificazione urbanistica e procedimento autorizzativo e alla sua capacità di produrre effetti diretti sull’assetto pianificatorio locale. In tale ambito, si è progressivamente consolidata – non senza resistenze dottrinali e oscillazioni giurisprudenziali – la tesi secondo cui l’approvazione del progetto da parte della conferenza di servizi, nell’ambito del procedimento unico dedicato, produce un effetto automatico di variante urbanistica.
Di fronte a un legislatore orientato alla concentrazione procedurale e alla semplificazione, la giurisprudenza si è spesso trovata nella posizione di dover bilanciare l’efficienza amministrativa con la salvaguardia dei principi urbanistici e partecipativi propri di una pianificazione intesa come espressione dell’autonomia locale. E poiché, come sappiamo, la giurisprudenza arriva quasi sempre a valle dei conflitti – quando le decisioni sono già state assunte – abbiamo provato a interrogarci sul perché questo istituto, la cosiddetta variante urbanistica automatica o comportata, continui a suscitare dibattiti e resistenze.
Origini e trasformazioni: dalla programmazione urbanistica prescrittiva alla procedura autorizzativa ad efficacia conformativa
Per comprendere appieno la portata dell’attuale disciplina, è necessario indagarne le radici storiche e ripercorrerne sinteticamente l’evoluzione.
Il D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915 – primo tentativo organico di regolazione della materia – nel disciplinare il regime delle autorizzazioni, allora previsto unicamente per le discariche, richiedeva che, in sede istruttoria, fosse accertata la rispondenza del sito ai requisiti stabiliti ai sensi del decreto. Tali requisiti saranno tuttavia individuati solo due anni più tardi, con la Deliberazione del Comitato Interministeriale del 27 luglio 1984, la quale non faceva menzione della questione relativa alla conformità urbanistica, che si doveva pertanto ritenere già sussistente al momento della presentazione del progetto.
A sostegno di tale lettura, il paragrafo 4.2.3.2 della medesima Deliberazione prevedeva, alla lettera d), che il piano di recupero ambientale fosse conforme alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti o adottati (e quindi non ancora pienamente efficaci), e che tale piano dovesse essere allegato alla richiesta di autorizzazione alla discarica. Ne derivava, dunque, che nessun effetto conformativo implicito poteva essere attribuito all’atto autorizzativo.
Il primo segnale di discontinuità con questo assetto, si ebbe con il decreto-legge 28 febbraio 1987, n. 54, il quale, all’articolo 3, comma 4, introdusse la possibilità che l’approvazione del progetto potesse comportare una variante urbanistica implicita. Si trattava di un intervento emergenziale – non per niente recante “Disposizioni urgenti…” – motivato dalla crisi gestionale del settore dei rifiuti urbani che aveva investito il Paese negli anni Ottanta, aggravata dall’inerzia di strumenti urbanistici spesso inadeguati o superati.
Il medesimo decreto delineava, inoltre, i tratti embrionali di quella che sarebbe divenuta l’odierna conferenza dei servizi, prevedendo che ai fini istruttori fosse istituita un’apposita conferenza per esprimere parere in ordine alla valutazione degli interessi territoriali e degli effetti dell’intervento, anticipando, di fatto, lo spirito della legge 241/1990.
Con il D.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 [cd. Decreto Ronchi] l’effetto di variante veniva definitivamente consolidato, divenendo una componente strutturale del nuovo modello autorizzativo. La progressiva formalizzazione della conferenza dei servizi – dapprima nella legge n. 241/1990, poi nella legge n. 127/1997 – consentì di superare l’impostazione settoriale e frammentaria della fase istruttoria, in favore di un modello integrato.
Questa convergenza normativa – tra la semplificazione procedurale introdotta dalla legge generale sul procedimento amministrativo e la specializzazione settoriale del decreto sui rifiuti – ha determinato all’affermazione di un modello autorizzativo accelerato, imperniato sulla concentrazione degli atti e sulla contestuale valutazione degli interessi pubblici coinvolti, funzionale e ad elevata capacità conformativa e destinato a incidere profondamente sulla disciplina degli impianti ambientali e, più in generale, sulla governance del territorio.
Col decreto Ronchi si assiste all’affermazione di un nuovo paradigma: l’urbanistica locale perde il carattere prescrittivo e autonomo che aveva avuto fino a quel momento, per trasformarsi in un quadro flessibile e modulabile, suscettibile di essere adeguato in funzione di scelte procedimentali fondate su interessi pubblici prevalenti. Ciò consentiva, da un lato, di evitare la paralisi amministrativa dovuta al mancato o tardivo adeguamento della pianificazione urbanistica; dall’altro, di assicurare l’effettività della funzione autorizzativa, sottraendola a una subordinazione meramente formale rispetto a strumenti urbanistici spesso datati o incoerenti con le nuove esigenze di sviluppo infrastrutturale. La variante urbanistica cessa quindi di essere un momento autonomo presupposto, precedente al procedimento amministrativo e diviene un effetto diretto di quest’ultimo, comportato del provvedimento autorizzativo.
Il modello delineato dall’art. 208 del D.lgs. 152/2006
Con il D.lgs. 152/2006, la disciplina dell’autorizzazione unica viene ulteriormente sistematizzata.
L’art. 208, comma 6, dispone infatti che “l’approvazione del progetto da parte della conferenza di servizi comporta, ove occorra, variante allo strumento urbanistico”. Il dato normativo è inequivoco nel riconoscere all’approvazione del progetto un effetto conformativo, sottratto a un autonomo procedimento di variante. Tuttavia, proprio l’ampiezza dell’effetto riconosciuto ha suscitato nel tempo un vivace e interessante dibattito giurisprudenziale.
Le oscillazioni della giurisprudenza amministrativa
In sede giurisprudenziale si sono nel tempo delineati due distinti orientamenti interpretativi.
Il primo, di segno più restrittivo e formatosi in una fase iniziale di applicazione della normativa, ammetteva l’effetto di variante urbanistica solo al ricorrere di condizioni. In questa prospettiva, l’autorizzazione rilasciata ai sensi dell’art. 208, comma 6, del D.Lgs. n. 152/2006 produce effetti sullo strumento urbanistico soltanto in presenza di un espresso assenso dell’Amministrazione comunale alla variante stessa. Si veda, in tal senso, TAR Piemonte, Sez. I, 13 aprile 2017, n. 480, che subordina l’effetto di variante all’approvazione comunale, negandone la portata automatica.
Il secondo orientamento, di affermazione più recente, valorizza la natura derogatoria dell’autorizzazione rispetto alla pianificazione urbanistica comunale. Esso riconosce che l’approvazione del progetto in sede di conferenza di servizi è di per sé sufficiente a superare ogni contrasto urbanistico, proprio in ragione della specialità del procedimento e della rilevanza pubblicistica dell’attività autorizzata. Emblematica in tal senso è Cons. Stato, Sez. IV, 28 giugno 2022, n. 5376, secondo cui il provvedimento autorizzativo, in quanto unico e conclusivo di un procedimento integrato, ha efficacia conformativa e sostitutiva, prevalendo sulle disposizioni urbanistiche comunali in funzione della realizzazione di un interesse pubblico primario quale la corretta gestione dei rifiuti.
In ogni caso, resta fermo il carattere temporaneo della variante urbanistica così prodotta, che mantiene la propria efficacia solo per la durata del provvedimento autorizzativo, eventualmente rinnovato, ma destinato a esaurirsi con la cessazione dell’attività. Lo ha ricordato di recente TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 23 dicembre 2024, n. 3767, chiarendo che la variazione urbanistica non assume natura definitiva, ma resta funzionalmente ancorata all’efficacia dell’autorizzazione unica cui accede.
Pur nel rispetto dei diversi approdi interpretativi offerti dalla giurisprudenza, si ritiene che la questione vada ricondotta entro un perimetro concettuale più saldo, che valorizzi la natura intrinsecamente pubblicistica dell’attività di gestione dei rifiuti. È su questo piano che si fonda l’analisi proposta nel paragrafo che segue, nella convinzione che il vero punto di equilibrio non risieda tanto nella ricostruzione del consenso comunale, quanto nel riconoscimento di un interesse pubblico che l’ordinamento stesso qualifica come tale, indipendentemente dall’identità del soggetto proponente.
Il nodo dell’interesse pubblico e le iniziative private
Se, nel caso delle opere pubbliche, l’interesse pubblico può ritenersi intrinsecamente connesso alla volontà politica espressa attraverso il mandato elettorale, e dunque ogni decisione dell’autorità pubblica trova una legittimazione democratica diretta, più complesso è il discorso per le iniziative riconducibili all’impresa privata. In questi casi, infatti, l’interesse pubblico non può considerarsi presunto.
Esiste, tuttavia, un’eccezione rilevante a questa logica ed è rappresentata dal settore della gestione dei rifiuti, il quale — pur potendo essere svolto da soggetti privati — è qualificato ex lege come servizio di pubblico interesse, sottratto alla necessità di una motivazione rafforzata e di forme autonome di deliberazione da parte della pubblica amministrazione. L’interesse pubblico, in questo ambito, risulta dunque presunto e non soggetto a preventiva verifica, in quanto riconosciuto direttamente dall’ordinamento come strutturalmente connesso alla funzione esercitata.
Questa impostazione, che trova fondamento già nell’impianto del D.P.R. 915/1982, affonda le sue radici in un periodo storico in cui la gestione dei rifiuti — prevalentemente urbani — era affidata ai Comuni, che la esercitavano in regime di privativa, qualificandola come funzione pubblica essenziale. Da allora, il passaggio a una sempre maggiore apertura al contributo di operatori privati, soprattutto nel settore dei rifiuti speciali, non ha modificato la sostanza della qualificazione pubblicistica del servizio, legittimando l’effetto di variante urbanistica anche in assenza di una deliberazione esplicita da parte degli enti titolari della pianificazione.
Considerazioni conclusive
La tensione tra le esigenze di efficienza amministrativa e la tutela delle prerogative comunali in materia di pianificazione, almeno in assenza di un intervento chiarificatore e risolutivo da parte del legislatore, è destinata ad alimentare un dibattito potenzialmente infinito. Pur in presenza di un impianto normativo che riconosce all’autorizzazione unica un effetto conformativo, la percezione di uno svuotamento del ruolo degli enti locali nelle scelte urbanistiche ha generato, anche in giurisprudenza, una certa instabilità interpretativa. Ne è derivato un equilibrio fragile, spesso più apparente che risolto, che riflette la natura quantistica del rapporto tra norma e pianificazione.
Un dibattito istituzionale che miri a un riallineamento interpretativo appare dunque auspicabile, se si vuole garantire — più ancora che la certezza del diritto, che non si ritiene in discussione — una piena coerenza tra i diversi livelli di governo del territorio. In attesa di un tale chiarimento, l’operatore giuridico è chiamato a muoversi in un terreno normativo complesso e spesso insidioso, orientando le proprie decisioni con l’affidamento che compete a chi, pur rispettando il dettato normativo, non rinuncia a interrogarne il significato, evitando quella forma di devozione letterale che talvolta finisce per confondere il diritto con un testo liturgico.
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