Il presente parere è incentrato sulla definizione di scarico di cui all’art. 74 comma 1, lettera ff) del D.L.vo 152/06 e, precisamente, sulla distinzione tra scarichi e rifiuti liquidi. In particolare, ci è stato richiesto di valutare se i reflui prodotti dalla pulizia di vasche e i reflui esausti da impianti a ciclo “isolato”, nell’ipotesi di depurazione all’interno di un sito produttivo, possano essere gestiti come acque di scarico e non già come rifiuti liquidi.
Stefano Maglia - Miriam Viviana Balossi, 14/05/2018

Nozione di scarico

 
L’attuale e vigente definizione di scarico è contenuta nell’art. 74, c. 1, lett. ff) del D.L.vo 152/06[1], che lo descrive quale:
qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante”.
Tale nozione è il risultato di anni di modifiche normative, interpretazioni dottrinali e pronunce giurisprudenziali che hanno contribuito a definire giuridicamente “scarico” ciò che presenta le seguenti caratteristiche:
 

  • qualsiasi immissione”: si deve trattare di un’introduzione fisica di reflui di qualsiasi tipologia;
  • sistema stabile di collettamento”: tale deve essere il veicolo che permette di realizzare la suddetta immissione. Non è necessaria, a nostro avviso, una tubatura vera e propria, ma è sufficiente un sistema di deflusso, oggettivo e duraturo, che comunque canalizza i reflui;
  • senza soluzione di continuità”: ovvero direttamente. Ciò significa che non ci possono essere interruzioni fisiche nel flusso di immissione/convogliamento dei reflui tra il ciclo di produzione e il suo corpo recettore;
  • indipendentemente dalla loro natura inquinante”: ai fini della configurabilità giuridica della nozione di scarico, non rileva se il refluo riveste attitudine inquinante o meno;
  • esclusivamente”: questa sopra descritta è l’unica possibilità ammessa dal Legislatore affinché si possa configurare uno scarico in senso giuridico, e non sono previste alternative.

 
Tutto ciò premesso, s’intende per scarico solo quell’immissione diretta e continuativa immessa tramite un sistema stabile di deflusso, dal momento della produzione del refluo fino al suo sversamento in un recettore, che sia la pubblica fognatura o un corpo idrico, oppure l’impianto di depurazione.
 

Esclusioni

 
Per contro, tutto ciò che non rientra in tale casistica (e, quindi, nei casi in cui si ravvisa un’interruzione rappresentata ad esempio, da un accumulo in una vasca o un prelievo da parte di un’autobotte) è inesorabilmente un rifiuto (liquido)[2]: quest’ultimo è un rifiuto a tutti gli effetti (con stato fisico liquido anziché solido), ovvero, ai sensi dell’art. 183, c. 1 lett. a) del citato D.L.vo 152/06, “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi”.
 
Come confermato dalla pronuncia n. 25037 del 22 giugno 2011 della Corte di Cassazione Penale, sez. III, “in assenza di una condotta di scarico, le acque reflue devono qualificarsi rifiuti liquidi … il cui versamento sul suolo ovvero la cui immissione in acque superficiali o sotterranee, senza autorizzazione, è sanzionata penalmente dall’art. 256, commi 1 e 2[3]” del D.L.vo 152/06.
 
Del resto, l’art. 185, comma 2, lett. a) del D.L.vo 152/06 esclude dall’ambito di applicazione della Parte IV, in quanto regolate da altre disposizioni normative, “le acque di scarico” (che trovano, infatti, la loro disciplina nella Parte III del medesimo provvedimento).
 

Il discrimine tra scarico e rifiuto liquido

 
La giurisprudenza, in considerazione della possibile sovrapposizione tra la nozione di acque di scarico e di rifiuti allo stato liquido, ha avuto occasione di chiarire che assume rilievo, quale unico criterio di discrimine tra le due discipline di riferimento (Parte III e Parte IV del D.L.vo 152/06), non già la natura inquinante della sostanza, bensì la tipologia di collegamento (diretto/indiretto) tra la fonte di produzione del refluo ed il suo corpo recettore.
 
In argomento segnaliamo la sentenza n. 16623 del 21 aprile 2015 della Corte di Cassazione Penale, sez. III, secondo la quale la disciplina sugli scarichi di cui alla Parte III, D.L.vo 152/06, trova applicazione soltanto se il collegamento tra ciclo di produzione e recapito finale sia diretto ed attuato mediante un sistema stabile di collettamento. Se presenta, invece, momenti di soluzione di continuità, di qualsiasi genere, si è in presenza di un rifiuto liquido, il cui smaltimento deve essere come tale autorizzato: ne è un esempio il prelievo mediante autobotte, che si configura quale interruzione del collegamento tra ciclo di produzione ed il suo convogliamento all’impianto di depurazione.
 

Conclusioni

 
Lo scarico è definito dall’art. 74, c. 1, lett. ff) del D.L.vo 152/06, quale “qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante”. Si tratta, in sostanza, dell’introduzione fisica diretta e continuativa di reflui (inquinanti o meno), immessa tramite un sistema stabile di deflusso, dal momento della produzione del refluo fino al suo sversamento in un recettore, che sia la pubblica fognatura o un corpo idrico, oppure l’impianto di depurazione.
 
Diversamente, come nel caso in cui si abbia un’interruzione rappresentata ad esempio, da un accumulo in una vasca o un prelievo da parte di un’autobotte, si tratta di un rifiuto con stato fisico liquido anziché solido, la cui gestione deve avvenire conformemente alle prescrizioni di cui alla Parte IV del citato D.L.vo 152/06.
 
La possibile sovrapposizione tra la nozione di acque di scarico e di rifiuti allo stato liquido, che genera incertezza circa l’applicabilità della Parte III o IV del predetto D.L.vo 152/06, ha portato la giurisprudenza chiarie che l’unico criterio di discrimine tra l’una e l’altra disciplina risulta essere la tipologia di collegamento (diretto/indiretto) tra la fonte di produzione del refluo ed il suo corpo recettore: se diretto, si tratta di scarico (Parte III); se indiretto, si tratta di rifiuto liquido (Parte IV).
 
 
Note:
 
[1] Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152, Norme in materia ambientale, pubblicato sul Supplemento ordinario n. 96 alla Gazzetta Ufficiale n. 88 del 14 aprile 2006, in vigore dal 29 aprile 2006, ad eccezione delle disposizioni della Parte II, in vigore dal 12 agosto 2006.
 
[2] Si veda ampia dottrina sul punto:

  • V. BALOSSI – E. SASSI, La gestione degli scarichi. Aspetti giuridici e tecnici, Irnerio Editore, 2011, p. 9;
  • PRATI – G. GALOTTO, Scarichi, inquinamento idrico e difesa del suolo, WKI Editore, 2008, p. 15;
  • FICCO – M. SANTOLOCI, Confine tra acque di scarico e rifiuti allo stato liquido: il d.lgs. 152/2006 conferma la distinzione con qualche certezza in più, in www.reteambiente.it

 
[3] Art. 256 del D.L.vo 152/2006 – Attività di gestione di rifiuti non autorizzata:
1. Fuori dai casi sanzionati ai sensi dell’articolo 29-quattuordecies, comma 1, chiunque effettua una attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui agli articoli 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 è punito:
a) con la pena dell’arresto da tre mesi a un anno o con l’ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di rifiuti non pericolosi;
b) con la pena dell’arresto da sei mesi a due anni e con l’ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di rifiuti pericolosi.
2. Le pene di cui al comma 1 si applicano ai titolari di imprese ed ai responsabili di enti che abbandonano o depositano in modo incontrollato i rifiuti ovvero li immettono nelle acque superficiali o sotterranee in violazione del divieto di cui all’articolo 192, commi 1 e 2
”.