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Cosa si intende quando si chiede che la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale?
di Stefano Maglia
Categoria: Rifiuti
Il 10 maggio 2012 è stata depositata la sentenza n. 17453 della Corte di Cassazione Penale, Sez. III, nella quale è stato affrontato un tema molto discusso legato alla nozione di sottoprodotto, ovvero la caratteristica dei trattamenti sui beni “diversi dalla normale pratica industriale” di cui all’art. 182 bis del D.L.vo 152/06. I Giudici nella sentenza citata aderiscono ad una interpretazione non condivisibile di tale concetto, richiamando espressamente una nozione di trattamento – ripresa dal D.L.vo 36/03 (cd decreto discariche) che non solo oggi è superata –, poiché tale nozione ora è contenuta all’art. 183 lettera s) del TUA2, ma è anche inadeguata, poiché espressamente riferita ad una disciplina che riguarda la gestione del fine vita (smaltimento in discarica) dei rifiuti, quindi un aspetto totalmente opposto al concetto del “sottoprodotto”. In realtà “Trattamento rifiuti” è una cosa, “Pratica industriale su un bene” è chiaramente un’altra! Nei passaggi argomentativi della sentenza si legge in particolare che: “sebbene la delimitazione del concetto di normale pratica industriale non sia agevolata dalla genericità della disposizione, certamente esclude le attività comportanti trasformazioni radicali del materiale trattato che ne stravolgano l’originaria natura”. Tale dicitura, eccessivamente generica, rischia di fornire una interpretazione estremamente fuorviante: si pensi al caso emblematico delle vinacce, che la Cassazione ha già avuto modo di classificare indiscutibilmente come sottoprodotti se inviate, per esempio, ad una distilleria, per le quali se è vero che da parte del soggetto da cui esse derivano subiscono trattamenti “minimali”, è altresì vero che invece subiscono trattamenti radicali da parte del soggetto che le utilizza per “trasformarle” in grappa, il quale, paradossalmente, se si seguisse alla lettera tale interpretazione della SC, dovrebbe ottenere una autorizzazione al recupero di rifiuti! Tale considerazione consente di affermare un principio molto importante ovvero che nell’analisi del sottoprodotto occorre aver riguardo alle caratteristiche di due processi produttivi: quello di “origine” (a monte) del materiale che potrebbe essere classificato come tale, e quello “a valle”, cioè il successivo (eventuale) processo produttivo che lo trasforma in un bene per il mercato; considerare che nessuno dei due può determinare “una trasformazione radicale del materiale” ha lo stesso effetto di render inutilizzabile la nozione di sottoprodotto3, poiché solo in rari casi un materiale che decade da un ciclo produttivo non come bene primario è direttamente impiegabile tal quale anche in altro ciclo produttivo, quindi l’abbinamento della Cassazione tra “la normale pratica industriale” e “la mancata trasformazione radicale della natura del materiale” può eventualmente essere valido solo per il ciclo produttivo a monte, ma non certo per quello a valle. L’ipotizzare poi che “sottoprodotto” si ha solamente se il produttore dello scarto decide autonomamente che quello è un sottoprodotto perché non ha compiuto sul medesimo alcuna “trasformazione radicale” a prescindere dal necessario collegamento su cosa ne sarà di tale scarto è inoltre assai “rischioso” in termini di dimostrazione della certezza di tale operazione! Del resto, il richiamo alla “normale pratica industriale” si è sempre giustificato quale utile criterio di identificazione dei “trattamenti ammessi” che sono sempre stati individuati in quelli “sostanzialmente assimilabili” a quelli a cui l’impresa sottopone anche il “prodotto industriale”, prima di immetterlo sul mercato, a prescindere quindi dalle modificazioni della sua natura. I trattamenti della “normale pratica industriale” possono dunque definirsi come il complesso di “ordinarie” operazioni o fasi produttive che – secondo una prassi consolidata nel settore specifico di riferimento – caratterizza un dato ciclo di produzione di beni, e che possono mutare da sottoprodotto a sottoprodotto a prescindere dalle variazioni sulla originaria natura. Peraltro anche la stessa Cassazione formula questa considerazione nella medesima sentenza, ove letteralmente così si esprime: “Deve propendersi, ad avviso del Collegio, per un’interpretazione meno estensiva dell’ambito di operatività della disposizione in esame e tale da escludere dal novero della normale pratica industriale tutti gli interventi manipolativi del residuo diversi da quelli ordinariamente effettuati nel processo produttivo nel quale esso viene utilizzato”. E dove è scritto che gli interventi “ordinariamente” necessari nella “normale” pratica industriale per trasformare uno scarto di cui nessuno si disfi in un altro prodotto (sotto-prodotto) non possano consistere in “trasformazioni radicali…che ne stravolgano l’originaria natura”? Anche l’avverbio “direttamente” deve essere inteso nell’ottica che bisogna assicurare in tutti i modi la certezza e la tracciabilità dell’operazione, ma non inficia il concetto che la “normale pratica industriale” può cambiare da un processo produttivo ad un altro. In conclusione: come si fa in una medesima pronuncia (peraltro estesa da uno dei maggiori esperti di normativa ambientale a livello nazionale, col quale sono legato da profonda ed antica amicizia e stima) affermare in un punto che la “normale” pratica industriale non può comportare “trasformazioni radicali…che ne stravolgano l’originaria natura” e poche righe sotto affermare che si devono escludere da tale concetto solo “gli interventi manipolativi del residuo diversi da quelli ordinariamente effettuati”? Pertanto, anche alla luce della ratio della vigente Dir. 98/2008/CE che giustamente ribadisce con forza e decisione (ormai dal 1975, Dir. n. 445/CE) la priorità di produrre meno rifiuti sin dall’origine incentivando il più possibile ogni operazione che vada in questa direzione, auspichiamo un prossimo intervento maggiormente coerente della Suprema Corte.
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Cosa si intende quando si chiede che la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale?
di Stefano Maglia
Il 10 maggio 2012 è stata depositata la sentenza n. 17453 della Corte di Cassazione Penale, Sez. III, nella quale è stato affrontato un tema molto discusso legato alla nozione di sottoprodotto, ovvero la caratteristica dei trattamenti sui beni “diversi dalla normale pratica industriale” di cui all’art. 182 bis del D.L.vo 152/06.
I Giudici nella sentenza citata aderiscono ad una interpretazione non condivisibile di tale concetto, richiamando espressamente una nozione di trattamento – ripresa dal D.L.vo 36/03 (cd decreto discariche) che non solo oggi è superata –, poiché tale nozione ora è contenuta all’art. 183 lettera s) del TUA2, ma è anche inadeguata, poiché espressamente riferita ad una disciplina che riguarda la gestione del fine vita (smaltimento in discarica) dei rifiuti, quindi un aspetto totalmente opposto al concetto del “sottoprodotto”.
In realtà “Trattamento rifiuti” è una cosa, “Pratica industriale su un bene” è chiaramente un’altra!
Nei passaggi argomentativi della sentenza si legge in particolare che: “sebbene la delimitazione del concetto di normale pratica industriale non sia agevolata dalla genericità della disposizione, certamente esclude le attività comportanti trasformazioni radicali del materiale trattato che ne stravolgano l’originaria natura”.
Tale dicitura, eccessivamente generica, rischia di fornire una interpretazione estremamente fuorviante: si pensi al caso emblematico delle vinacce, che la Cassazione ha già avuto modo di classificare indiscutibilmente come sottoprodotti se inviate, per esempio, ad una distilleria, per le quali se è vero che da parte del soggetto da cui esse derivano subiscono trattamenti “minimali”, è altresì vero che invece subiscono trattamenti radicali da parte del soggetto che le utilizza per “trasformarle” in grappa, il quale, paradossalmente, se si seguisse alla lettera tale interpretazione della SC, dovrebbe ottenere una autorizzazione al recupero di rifiuti!
Tale considerazione consente di affermare un principio molto importante ovvero che nell’analisi del sottoprodotto occorre aver riguardo alle caratteristiche di due processi produttivi: quello di “origine” (a monte) del materiale che potrebbe essere classificato come tale, e quello “a valle”, cioè il successivo (eventuale) processo produttivo che lo trasforma in un bene per il mercato; considerare che nessuno dei due può determinare “una trasformazione radicale del materiale” ha lo stesso effetto di render inutilizzabile la nozione di sottoprodotto3, poiché solo in rari casi un materiale che decade da un ciclo produttivo non come bene primario è direttamente impiegabile tal quale anche in altro ciclo produttivo, quindi l’abbinamento della Cassazione tra “la normale pratica industriale” e “la mancata trasformazione radicale della natura del materiale” può eventualmente essere valido solo per il ciclo produttivo a monte, ma non certo per quello a valle.
L’ipotizzare poi che “sottoprodotto” si ha solamente se il produttore dello scarto decide autonomamente che quello è un sottoprodotto perché non ha compiuto sul medesimo alcuna “trasformazione radicale” a prescindere dal necessario collegamento su cosa ne sarà di tale scarto è inoltre assai “rischioso” in termini di dimostrazione della certezza di tale operazione!
Del resto, il richiamo alla “normale pratica industriale” si è sempre giustificato quale utile criterio di identificazione dei “trattamenti ammessi” che sono sempre stati individuati in quelli “sostanzialmente assimilabili” a quelli a cui l’impresa sottopone anche il “prodotto industriale”, prima di immetterlo sul mercato, a prescindere quindi dalle modificazioni della sua natura.
I trattamenti della “normale pratica industriale” possono dunque definirsi come il complesso di “ordinarie” operazioni o fasi produttive che – secondo una prassi consolidata nel settore specifico di riferimento – caratterizza un dato ciclo di produzione di beni, e che possono mutare da sottoprodotto a sottoprodotto a prescindere dalle variazioni sulla originaria natura. Peraltro anche la stessa Cassazione formula questa considerazione nella medesima sentenza, ove letteralmente così si esprime: “Deve propendersi, ad avviso del Collegio, per un’interpretazione meno estensiva dell’ambito di operatività della disposizione in esame e tale da escludere dal novero della normale pratica industriale tutti gli interventi manipolativi del residuo diversi da quelli ordinariamente effettuati nel processo produttivo nel quale esso viene utilizzato”.
E dove è scritto che gli interventi “ordinariamente” necessari nella “normale” pratica industriale per trasformare uno scarto di cui nessuno si disfi in un altro prodotto (sotto-prodotto) non possano consistere in “trasformazioni radicali…che ne stravolgano l’originaria natura”? Anche l’avverbio “direttamente” deve essere inteso nell’ottica che bisogna assicurare in tutti i modi la certezza e la tracciabilità dell’operazione, ma non inficia il concetto che la “normale pratica industriale” può cambiare da un processo produttivo ad un altro.
In conclusione: come si fa in una medesima pronuncia (peraltro estesa da uno dei maggiori esperti di normativa ambientale a livello nazionale, col quale sono legato da profonda ed antica amicizia e stima) affermare in un punto che la “normale” pratica industriale non può comportare “trasformazioni radicali…che ne stravolgano l’originaria natura” e poche righe sotto affermare che si devono escludere da tale concetto solo “gli interventi manipolativi del residuo diversi da quelli ordinariamente effettuati”?
Pertanto, anche alla luce della ratio della vigente Dir. 98/2008/CE che giustamente ribadisce con forza e decisione (ormai dal 1975, Dir. n. 445/CE) la priorità di produrre meno rifiuti sin dall’origine incentivando il più possibile ogni operazione che vada in questa direzione, auspichiamo un prossimo intervento maggiormente coerente della Suprema Corte.
*Tratto da “La gestione dei rifiuti dalla A alla Z, III ed – 350 problemi, 350 soluzioni“, Stefano Maglia, 2012.
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