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Fanghi da depurazione delle acque reflue urbane: rifiuti o sottoprodotti?

di Miriam Viviana Balossi

Categoria: Fanghi

L’istituto del sottoprodotto è uno degli strumenti più importanti per raggiungere gli obiettivi della Circular Economy e può portare a concreti guadagni per le imprese, risparmiando sulle materie prime e sui costi di gestione dei rifiuti.

Tuttavia, esso non è suscettibile di essere applicato indiscriminatamente, ma necessita di un’indagine caso per caso.

In questa sede si prenderà in considerazione una situazione particolare, ovvero quella del servizio di fognatura e depurazione che genera una tipologia di rifiuti (i fanghi da depurazione) al fine di comprendere se, per questi, ci siano margini di up grade allo status di sottoprodotto, oppure no.

La depurazione delle acque reflue

La funzione più importante svolta dagli impianti di trattamento delle acque di scarico provenienti da agglomerati consiste nel depurare le acque reflue prodotte dall’attività umana al fine di consentire il loro recapito nei corpi recettori contribuendo in tal modo al mantenimento degli obiettivi di qualità dei suddetti recettori.

Tale attività determina la produzione di volumi significativi di fanghi di depurazione che rappresentano, quindi, i “rifiuti” derivanti da questo processo, con la conseguente problematica del loro collocamento.

Nel corso del processo di depurazione vengono ridotti in modo significativo non solo i cosiddetti nutrienti (azoto e fosforo) e le sostanze organiche facilmente biodegradabili, ma anche numerose sostanze chimiche indesiderabili provenienti dagli scarichi urbani e industriali.

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Analisi normativa

Per quanto concerne le attività di raccolta, trasporto e stoccaggio, si fa notare che i fanghi sono classificati quali rifiuti ai sensi dell’art. 127 c. 1 del D.L.vo 152/2006, per cui essi sono soggetti alla normativa di cui alla Parte IV[1]:
“Ferma restando la disciplina di cui al decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 99, i fanghi derivanti dal trattamento delle acque reflue sono sottoposti alla disciplina dei rifiuti, ove applicabile e comunque solo alla fine del complessivo processo di trattamento effettuato nell’impianto di depurazione. I fanghi devono essere riutilizzati ogni qualvolta il loro reimpiego risulti appropriato”.

La disposizione, originariamente, era contenuta nell’articolo 48 dell’ormai abrogato D.L.vo 152/1999 che stabiliva:
“Ferma restando la disciplina di cui al decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 99 e successive modifiche, i fanghi derivanti dal trattamento delle acque reflue sono sottoposti alla disciplina dei rifiuti. I fanghi devono essere riutilizzati ogni qualvolta ciò risulti appropriato”.

La stessa veniva sostanzialmente riproposta nell’art. 127 del D.L.vo 152/2006, nell’originaria formulazione, con un’ulteriore specificazione:
“Ferma restando la disciplina di cui al D.L.vo 27 gennaio 1992, n. 99, i fanghi derivanti dal trattamento delle acque reflue sono sottoposti alla disciplina dei rifiuti, ove applicabile. I fanghi devono essere riutilizzati ogni qualvolta il loro reimpiego risulti appropriato”.
Veniva altresì aggiunto il divieto di smaltimento dei fanghi nelle acque superficiali dolci e salmastre.

Sul punto si concorda con chi all’epoca sottolineò come “la nuova formulazione dell’articolo 127 non sembra aver creato particolari problemi interpretativi. L’innovazione introdotta […] è stata generalmente letta per quello che era e, cioè, una mera precisazione, peraltro ridondante poiché non è dato comprendere come possano assoggettarsi i fanghi alla disciplina sui rifiuti quando questa non sia applicabile […]”[2].

Le modifiche apportate all’art. 127 – a partire dal II Correttivo al D.L.vo 152/06 – hanno spostato, dunque, il momento in cui la disciplina dei rifiuti deve applicarsi ai fanghi al termine del complessivo processo di trattamento effettuato nell’impianto di depurazione, ragion per cui è essenziale individuare il momento finale di tale trattamento.
Dal 15 aprile 2023, a dissipare i dubbi, è intervenuto il D.L. 39/23, ovvero “Disposizioni urgenti per il contrasto della scarsità idrica e per il potenziamento e l’adeguamento delle infrastrutture idriche”, il cui art. 9 ha aggiunto le parole “comunque solo” all’art. 127 innanzi citato, il quale deve, quindi, leggersi ad oggi come ai fanghi derivanti da processi di depurazione di acque reflue la disciplina dei rifiuti si applichi solo e soltanto al termine dell’intero processo di trattamento.

Di fatto, però, si premette che – a quanto risulta dall’esame normativo, dottrinale e giurisprudenziale – “le fonti in materia apparentemente non forniscono un criterio certo, espresso e univoco per identificare il momento nel quale i materiali derivanti dal processo di depurazione “transitano” nell’ambito della normativa sui rifiuti”[3].

L’art. 2 del D.L.vo 99/1992[4] definisce i fanghi come residui derivanti dai processi di depurazione e si riferisce ai fanghi trattati avendo riguardo ad una fase successiva alla depurazione, come sembra potersi desumere dal tenore dell’art. 3, che indica il trattamento tra le condizioni per l’utilizzazione e dell’art. 11, c. 2, il quale prevede, per i fanghi sottoposti a trattamento e ad altre procedure, ulteriori analisi rispetto a quelle previste dal comma precedente.

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Niente di essenziale si rinviene, inoltre, nel D.L.vo 152/2006 che definisce, nell’art. 74, c. 1, lett. bb). “fanghi: i fanghi residui, trattati o non trattati, provenienti dagli impianti di trattamento delle acque reflue urbane”, mentre l’art. 101, ultimo comma, si riferisce al “recupero come materia prima dei fanghi di depurazione”.

L’art. 184, c. 3, lettera g) individua tra i rifiuti speciali “[…] i fanghi prodotti dalla potabilizzazione e da altri trattamenti delle acque e dalla depurazione delle acque reflue e da abbattimento di fumi, dalle fosse settiche e dalle reti fognarie”, mentre l’art. 208, c. 15, cita gli “impianti mobili che effettuano la disidratazione dei fanghi generati da impianti di depurazione e reimmettono l’acqua in testa al processo depurativo presso il quale operano, ad esclusione della sola riduzione volumetrica e separazione delle frazioni estranee […]”.

Quindi, sotto il profilo normativo, si può concludere affermando che “le fasi intermedie del processo [depurativo] non possono essere, quindi, considerate autonomamente al fine della valutazione sul determinarsi del rifiuto, che, quindi, dovrà necessariamente essere effettuata al termine del predetto ciclo”[5].

La giurisprudenza

Anche la Corte di Cassazione, sez. III penale, n. 36096 del 5 ottobre 2011 ha avuto cura di precisare che “la collocazione temporale dell’effettivo completamento del processo può dipendere da fattori diversi come, ad esempio, nel caso in cui l’essiccamento avvenga con l’ausilio di specifiche attrezzature ovvero mediante semplice deposito nei letti di essiccamento e, in tale ipotesi, se il deposito venga effettuato all’aperto o al coperto, evitando così l’esposizione agli agenti atmosferici. Possono inoltre influire altri fattori, quali le effettive modalità di gestione dell’impianto o altri comportamenti specifici”.

Per cui, anche secondo la giurisprudenza è assai difficile individuare a priori, con precisione, il momento finale, ma è necessario un accertamento in concreto della natura dei fanghi e delle modalità di trattamento degli stessi[6].

In accordo con la pronuncia sopraccitata, “può dunque affermarsi il principio secondo il quale l’articolo 127 D.L.vo 152/06, nell’attuale stesura, ha fornito una ulteriore indicazione per meglio stabilire il momento in cui la disciplina dei rifiuti deve applicarsi ai fanghi e che viene individuato nella fine del complessivo trattamento, il quale è effettuato presso l’impianto e finalizzato a predisporre i fanghi medesimi per la destinazione finale – smaltimento o riutilizzo – in condizioni di sicurezza per l’ambiente mediante stabilizzazione, riduzione dei volumi ed altri processi. Tale precisazione determina, come ulteriore conseguenza, l’applicabilità della disciplina sui rifiuti in tutti i casi in cui il trattamento non venga effettuato o venga effettuato in luogo diverso dall’impianto di depurazione o in modo incompleto, inappropriato o fittizio”[7].

Più recentemente, la Corte di Cassazione, sez. III Penale, n. 27958 del 6 giugno 2017 ha così puntualizzato: “Questa Sezione, al fine di individuare il momento in cui i fanghi da depurazione siano soggetti alla normativa sui rifiuti …” ritiene che “ … il legislatore non ha inteso restringere, attraverso il riferimento cronologico, l’applicabilità delle disposizioni sui rifiuti, confinandole esclusivamente alla fine del processo di trattamento e disinteressandosi di qualsiasi tutela ambientale nelle fasi precedenti, ma ha precisato che la disciplina sui rifiuti va applicata al trattamento considerato nel suo complesso e ciò anche in considerazione del fatto che il preliminare trattamento dei fanghi viene effettuato presso l’impianto ed è finalizzato a predisporre i fanghi medesimi per la destinazione finale (smaltimento o riutilizzo) in condizioni di sicurezza per l’ambiente mediante stabilizzazione, riduzione dei volumi ed altri processi, con la conseguenza che la disciplina sui rifiuti si applica anche in tutti i casi in cui il trattamento non venga effettuato o venga effettuato in luogo diverso dall’impianto di depurazione o in modo incompleto, inappropriato o fittizio”.

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A parere di chi scrive, contestualizzando la decisione alla fattispecie per la quale è stata resa, si ritiene che in tale sede la Cassazione abbia voluto rimarcare il fatto che tutto il processo di trattamento, dal quale hanno poi origine i fanghi, debba essere garantito e tutelato sotto il profilo ambientale: in altre parole, l’espressione “e alla fine del complessivo processo di trattamento effettuato nell’impianto di depurazione” non deve assurgere a giustificazione di comportamenti eventualmente illeciti.

L’interpello al Ministero dell’Ambiente

Prima di concludere, in questa sede si deve dar conto della nota del MASE del 30 marzo 2023 con cui risponde ad un interpello della Provincia di Lecce inerente all’attività di estrazione dal processo depurativo delle acque reflue urbane di fango cellulosico da destinare per attività di produzione di conglomerato bituminoso, al fine di capire se si tratti di “riutilizzo di sottoprodotto” del processo depurativo o, viceversa, di attività di “recupero di rifiuto”.

Conformemente a quanto rappresentato nelle pagine che precedono, il Ministero conferma che “fin quando non sia concluso il processo di trattamento effettuato nell’impianto di depurazione, i fanghi sono regolamentati dalla disciplina di cui alla Parte III del D.lgs. 152/2006. Solo dopo, ove applicabile la disciplina dei rifiuti, anche ai sensi dell’art. 184 gli stessi sono classificati come rifiuti speciali”.

Tuttavia aggiunge: “quindi, qualora detti fanghi non possano essere utilizzati in agricoltura nel rispetto delle norme di settore e non siano ancora rifiuti, sarà il produttore a dover stabilire se ai suddetti fanghi possa essere attribuita la qualifica di sottoprodotto a seguito di una valutazione caso per caso nel rispetto della disciplina di cui al citato art. 184-bis”.

Questo apre lo scenario ad un’ulteriore riflessione (la possibilità che si possa intervenire su dei materiali non ancora definibili “fanghi – rifiuti” perché non hanno ancora ultimato il loro processo) e ad una conferma (il fermo rimando al rispetto della disciplina di cui all’art. 184-bis – unica disposizione di rango primario che norma il sottoprodotto – e quindi alla necessità che esso derivi da un processo produttivo).

Il fango di linea è un rifiuto?

A quest’ultimo proposito (ovvero alla possibilità che si possa intervenire su dei materiali non ancora definibili “fanghi – rifiuti”), si espongono alcune considerazioni.

Premesso che “le fonti normative in materia apparentemente non forniscono un criterio certo, espresso e univoco per identificare il momento nel quale i materiali derivanti dal processo di depurazione “transitano” nell’ambito della normativa sui rifiuti”[8], ad avviso di chi scrive, i fanghi di depurazione sono rifiuti quando si tratti di residui del processo di depurazione ormai giunto alla sua conclusione, con la conseguenza che fino a quel momento, vale a dire in una fase antecedente al completamento del processo di depurazione, possano non costituire rifiuti: questo è il caso del fango di linea, ovvero quel materiale ancora in fase di trattamento che non ha ancora i requisiti giuridici per essere definito “rifiuto” ai sensi dell’art. 127, c. 1 in combinato disposto con l’art. 183, c. 1, lett. a), D.L.vo 152/06[].

Per completezza, si precisa che la conduzione di attività sul fango di linea (quindi su un materiale che non è rifiuto) è già realtà.
A che risulti, operano impianti di depurazione in cui è stata adottata una specifica tecnologia per intervenire[10] nel processo di depurazione delle acque reflue urbane andando a trattare la biomassa in sospensione acquosa (BSA), ovvero quel fango di linea di cui si scriveva sopra. In questi casi, l’attività di depurazione delle acque con conseguente trattamento della sospensione liquida acquosa rientra nell’autorizzazione in capo al gestore del servizio idrico, e quindi dell’impianto di depurazione. Il tutto è stato realizzato mediante un atto di comunicazione all’ente competente per segnalare la modifica all’impianto e dunque il nuovo trattamento inserito nel ciclo di depurazione delle acque, al quale non è seguito alcun intervento/diniego/richiesta di informazioni da parte dell’Autorità competente.

Si sottolinea come il trattamento effettuato nella fattispecie non sia da considerarsi come una vera e propria attività di recupero (da autorizzare dunque ai sensi dell’art. 208 del D.L.vo 152/06) poiché interviene in una fase antecedente alla generazione del fango quale rifiuto.
Questa nuova tipologia di trattamento prevede di partire non dal fango disidratato (alla fine del trattamento depurativo e quindi avente le caratteristiche di rifiuto), bensì da un materiale biologico in sospensione acquosa, comunemente denominato “fango liquido”, “fango di linea” o “fango-liquame”, che è, di fatto, un materiale ancora in fase di trattamento, negli steps antecedenti la formazione del rifiuto (va da sé che in questo caso la massa è liquida, non palabile)[11].

Tra i vantaggi di questa attività si possono elencare i seguenti:
– i depuratori non produrrebbero più rifiuti (i fanghi), perché si interviene nel corso del processo di depurazione su una biomassa in sospensione acquosa, che non è rifiuto;
– si evita il trasporto su gomma del fango-rifiuto ad un impianto di trattamento;
– l’intervento tecnico sul depuratore non è (in linea di massima) invasivo, perché si interviene con una deviazione della tubazione di linea ad una vasca dove mettere in atto l’attività desiderata.

Infine, si conclude il presente paragrafo citando – a sostegno – quanto stabilito dal TAR Lazio, sez. Latina, con sentenza n. 778 del 13 novembre 2023, il quale ha deciso che ai sensi dell’art. 110, comma 3, lett. c), D.L.vo 152/06, i fanghi provenienti da impianti di depurazione dei reflui urbani, nei quali l’ulteriore trattamento non risulti realizzabile tecnicamente e/o economicamente, che siano avviati a trattamento presso altri impianti di depurazione condotti dal medesimo soggetto, gestore del servizio idrico integrato dell’ambito territoriale ottimale, non costituiscono un rifiuto, difettando l’intenzione di disfarsene, che il successivo art. 183, comma 1, lett. a), considera indispensabile per poter qualificare una determinata sostanza come rifiuto.

I fanghi da depurazione possono essere sottoprodotti?

Alla luce di quanto scritto sopra, i fanghi esitanti dal processo di depurazione delle acque reflue urbane (che hanno, dunque, concluso il loro iter) vengono classificati e gestiti come rifiuti ai sensi della Parte IV del D.L.vo 152/06 con destino ad impianto terzo, autorizzato alla relativa gestione.

Nell’ottica della spinta verso la Circular Economy, è senz’altro positivo l’intento di valutare altre possibilità di inquadramento giuridico e, conseguentemente, di differente gestione ai fini di prevenire la produzione di rifiuti.

Tuttavia, preme fin da subito escludere dal novero delle qualificazioni possibili dei fanghi quella di “sottoprodotto”, in quanto nel caso di specie difetta già la prima delle condizioni normativamente richieste per qualificare il fango di cui si tratta come tale, ossia la lett. a), c. 1, del citato art. 184-bis, la quale richiede che: “la sostanza o l’oggetto [sia] originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto”.

Si deve, difatti, rilevare che il fango esita da un processo di trattamento di acque reflue e non da un processo produttivo industriale.
La depurazione in sé non genera un vero output finale avendo come scopo quello di eliminare le sostanze inquinanti dall’acqua.

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Peraltro, lo stesso Allegato I al D.M. 264/2016 – recante criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti – menziona i fanghi da lavorazione del latte come residui idonei ad alimentare il processo di produzione di biogas e non i fanghi derivanti dalla depurazione, come quelli di cui si tratta.

Sul punto la Circolare del Ministero dell’ambiente n. 7619/2017 ha chiarito che per “processo produttivo” deve intendersi “un processo che trasforma i fattori produttivi in risultati […]” (Punto 6.2), e per fattore produttivo deve intendersi “Ciascun bene […] che viene impiegato nel processo di trasformazione e produzione di un altro bene […]”.

Conclusioni

A parere di chi scrive, nonostante il sottoprodotto rappresenti un efficace strumento per raggiungere gli obiettivi della Circular Economy, si ritiene che esso debba essere interpretato scrupolosamente caso per caso, con particolare attenzione e cautela, in quanto costituisce deroga al regime ordinario (ben normato) della gestione rifiuti.

Nella fattispecie qui in considerazione, è opinione di chi scrive che i fanghi derivanti dalla depurazione delle acque reflue urbane non possono legittimamente essere considerati sottoprodotti, in quanto difetta innanzitutto il primo requisito, ovvero quello che essi derivino da un processo di produzione – in quanto la depurazione delle acque reflue non integra tale definizione.

In subordine, come ampiamente dimostrato grazie all’analisi dell’art. 127 del D.L.vo 152/06, si conferma che è possibile intercettare i fanghi (di linea) in una fase del processo di depurazione antecedente la sua conclusione per destinarli ad altri usi (ovviamente da verificare di volta in volta nel caso concreto), in quanto in quel momento il processo di depurazione non si è ancora completato e la matrice su cui si interviene non è ancora giuridicamente un rifiuto a tutti gli effetti.

[1]Cass. Pen., sez. III, 9 gennaio 2007, n. 163: “l’autorizzazione allo scarico di acque reflue urbane provenienti da impianto di depurazione non comprende lo smaltimento dei fanghi prodotti dai detti impianti, atteso che trattasi di rifiuti speciali e come tali sottoposti alla disciplina di settore”.
[2]Così L. RAMACCI, La disciplina dei fanghi da depurazione dopo il D. Lgs. n. 4/2008, in Ambiente&Sviluppo, n. 5/2008, p. 464 e s.
[3]Così C. PARODI, Gestione dei fanghi da depurazione: quali responsabilità?, in Ambiente & Sicurezza, n. 6 del 26 marzo 2013, p. 93
Anche in L. RAMACCI, La disciplina dei fanghi da depurazione dopo il D. Lgs. n. 4/2008, op. cit., p. 466, si legge che “con minore chiarezza è stata invece affrontata la questione relativa all’individuazione del momento in cui la disciplina dei rifiuti deve applicarsi ai fanghi”.
[4]Attuazione della direttiva n. 86/278/CEE concernente la protezione dell’ambiente, in particolare del suolo, nell’utilizzazione dei fanghi di depurazione in agricoltura.
[5]Così C. PARODI, Fanghi da depurazione: quale disciplina applicabile?, in Ambiente & Sicurezza, n. 2/2010, p. 99
[6] Conf. altresì Cass. III Pen., n. 5356 del 14 febbraio 2011, che ha annullato l’ordinanza del Tribunale di Rieti per mancanza del suddetto accertamento.
[7] Conf. anche Cass. III Pen., n. 38051 del 17 settembre 2013.
[8] Così C. PARODI, Gestione dei fanghi da depurazione: quali responsabilità?, in Ambiente & Sicurezza, n. 6 del 26 marzo 2013, p. 93
Conformemente, si vedano:
– S. MAGLIA, La disciplina dei fanghi derivanti dal trattamento delle acque reflue, in https://www.tuttoambiente.it
– L. RAMACCI, La disciplina dei fanghi da depurazione dopo il D. Lgs. n. 4/2008, op. cit., p. 466, si legge che “con minore chiarezza è stata invece affrontata la questione relativa all’individuazione del momento in cui la disciplina dei rifiuti deve applicarsi ai fanghi”;
– C. SILVESTRI – C. FRASCATI, Quando i fanghi da depurazione divengono rifiuti?, in www.studiolegaleambiente.it
[9]Art. 183, c. 1, lett. a): “rifiuto: qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi”.
[10]Nei casi di specie, per la produzione di fertilizzanti.
[11]In merito alla palabilità, si segnala la recente sentenza Cass. Pen. Sez. III, dell’8 giugno 2023, n. 24279, la quale precisa che nel caso di specie si evidenziava “il carattere ormai “palabile” dei fanghi, all’interno di letti di essiccamento inseriti in un sistema di depurazione, dà in pratica atto dell’avvenuto completamento di almeno una parte del processo, con configurazione dei fanghi come residuato dello stesso, idoneo, come tale, a configurare rifiuti”.

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