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La delega di funzioni in campo ambientale e l'obbligo di vigilanza del responsabile dell’impresa

di Elisa Barbieri

Categoria: Vigilanza e controlli

Il tema della delega di funzioni risulta sempre di stretta attualità perché riguarda le scelte organizzative che il responsabile dell’impresa deve operare per raggiungere i propri obiettivi e, al contempo, tutelare tutti i beni giuridici primari implicati dalla sua attività, che trovano protezione, diretta o indiretta, nel dettato costituzionale.
 

In campo ambientale, tali scelte operative comportano il coinvolgimento di situazioni di imputabilità personale e, dunque, conseguenze anche penali per il responsabile dell’impresa. Da qui l’estrema rilevanza del tema della delega di funzioni e la sua costante presenza nelle pronunce giurisprudenziali.
 

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Attualmente la delega di funzioni costituisce una prassi lecita, ammessa e consolidata anche nel settore ambientale ove, sotto il profilo definitorio, è qualificata come lo strumento attraverso il quale il soggetto titolare di obblighi ex lege li trasferisce, unitamente ai relativi poteri e responsabilità, in capo ad un altro soggetto (Cass. Pen. Sez. Unite 18 settembre 2014 n. 38343, E.H. e altri). Si tratta, comunque, di una prassi frutto dell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale che, a partire della disciplina sulla sicurezza sul lavoro ed alle più generali norme sul mandato, ha ammesso l’applicabilità dell’istituto della delega di funzioni anche in assenza di una specifica normativa di riferimento (Cass. Pen. Sez. Unite n. 38343, già citata). Nel settore ambientale, infatti, manca una norma che preveda e regolamenti espressamente questo istituto.
 

Proprio questa carenza normativa ha inizialmente fatto dubitare studiosi e giudici dell’utilizzabilità della delega di funzioni nel settore ambientale, non ritenendo che un atto tra privati (come la delega) potesse validamente intervenire su obblighi e poteri attribuiti ex lege. Questa tesi, sviluppatasi soprattutto nell’ambito della tutela delle acque dall’inquinamento, è tuttavia rimasta minoritaria e con il tempo è stata del tutto superata. Invece, sono risultate prevalenti quella dottrina e quella giurisprudenza che, partendo dall’osservazione pratica della complessità delle realtà produttive e dalla presenza di reati propri nell’ambito del diritto penale dell’economia, hanno riconosciuto nella delega di funzioni un valido strumento organizzativo e gestionale, idoneo a dilatare (piuttosto che a comprimere) il numero dei soggetti potenzialmente chiamati a rispondere degli obblighi di protezione e tutela dei beni giuridici rilevanti previsti dalla legge. Si è così ammesso che anche la struttura aziendale basata sulla ripartizione dei compiti possa diligentemente adempiere agli obblighi legali di protezione, sempre che tale ripartizione sia esercitata secondo specifici criteri oggettivi e soggettivi (di cui si dirà meglio oltre).
 

Nell’ambito di questo orientamento maggioritario, sino agli anni ottanta dottrina e giurisprudenza si sono interrogate sugli effetti della delega di funzioni, con particolare riferimento all’impatto sulla posizione di garanzia del responsabile dell’azienda ed al suo residuo obbligo di vigilanza.
 

Una prima tesi, sviluppatasi in dottrina e giurisprudenza ma rimasta sempre minoritaria (Cass. Pen. 2 febbraio 1976 in Cass. Pen. Mass. 1977,1025) sosteneva che alla delega conseguisse il completo spossessamento del delegante, sicché con la delega veniva trasferito al delegato ogni obbligo originariamente gravante sul titolare. Mentre la tesi prevalente qualificava la delega come un modo del responsabile dell’impresa di adempiere all’obbligo legale di prevenire eventi penalmente rilevanti, inidoneo ad intaccare la funzione di vigilanza connaturata alla sua posizione apicale (Cass. Pen. 14 febbraio 1992).
 

Alla base di questo dibattito c’era la contrapposizione tra funzione oggettiva e soggettiva della delega, che dottrina e giurisprudenza hanno superato tenendo distinta la posizione di garanzia del titolare dalla responsabilità in concreto per l’adempimento del precetto di legge (quello oggetto della delega). Qui la delega ha la funzione di riscrivere la mappa dei poteri e delle responsabilità (Cass. Pen. Sez. Unite n. 38343, già citata), mutando il contenuto dell’obbligo originariamente gravante sul responsabile dell’impresa (ossia l’adempimento del precetto legale, che resta fermo anche successivamente alla sua delega) in obbligo di vigilanza sull’operato del delegato. In questo modo, la giurisprudenza e la dottrina, partendo ancora una volta dall’osservazione della pratica gestione dell’impresa, hanno riconosciuto l’impossibilità per il titolare di adempiere da solo a tutti gli obblighi di legge, e la necessità di ripartirli tra specifici incaricati, con conseguente (re)distribuzione anche delle relative responsabilità (Cass. Pen. Sez. III 25 novembre 2019 n. 4782).
 

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Come si è detto, però, l’effettivo trasferimento della responsabilità dal titolare all’incaricato dipende dalla validità della delega, ossia dal rispetto di una serie di requisiti oggettivi e soggettivi che la giurisprudenza ha elaborato vista l’assenza di una specifica norma di riferimento (Cass. Pen. Sez. III 29 novembre 2000 n. 12279, Buzzi; Cass. Pen. Sez. III 23 marzo 1994, Del Maestro; Cass. Pen. sez. III 13 maggio 2004 n. 26390; Cass. Pen. 3 marzo 2010, n. 8275; Cass. Pen. Sez. III 23 febbraio 2011 n. 6872; Cass. Pen. Sez. III 19 novembre 2013 n. 46237; Cass. Pen. Sez. III 9 dicembre 2015 n. 48456; Cass. Pen. Sez. III 23 giugno 2017 n. 31364, Paterniti; Cass. Pen. Sez. III 21 maggio 2015 n. 27862; Cass. Pen. Sez. III 12 febbraio 2020 n. 15941 “Fissolo”).
 

Sotto il profilo oggettivo occorre, che: a) la delega sia puntuale ed espressa, con specifica e chiara indicazione dei poteri delegati; b) la delega sia effettiva e pertanto comprenda i relativi poteri decisionale, di gestione e di spesa; c) il trasferimento delle funzioni sia giustificato in base alle dimensioni dell’impresa o comunque dalle necessità organizzative della stessa; d) alla delega sia data adeguata pubblicità. Sotto il profilo soggettivo, occorre che: e) il delegato deve essere tecnicamente idoneo e professionalmente qualificato per lo svolgimento del compito affidatogli; f) il delegante non ingerisca nell’esercizio delle funzioni da parte del delegante; g) non sussista una richiesta di intervento da parte del delegante.
 

Il titolare dell’impresa deve, quindi, essere sempre in grado di provare giudizialmente sia la delega sia il rispetto di tutti i requisiti richiesti, attraverso elementi accertabili in fatto che, nell’ambito di un giudizio ex ante, ne attestino in modo certo l’esistenza e la validità (Cass. Pen. Sez. III 7 novembre 2007 n. 6420, Girolimetto) .
 

L’interpretazione giurisprudenziale delle condizioni di validità della delega di funzioni riveste, pertanto, un ruolo centrale ai fini dell’accertamento della sua esistenza e validità, e per questo è utile seguirne le modifiche e gli sviluppi.
 

Partendo dalle condizioni oggettive, si osserva che il requisito dell’effettività della delega è quello che, con il tempo, ha prevalso su tutti gli altri, in quanto espressione del concreto trasferimento dei poteri decisionali dal delegante al delegato, unitamente alla necessaria autonomia finanziaria e gestionale (Cass. Pen. Sez. III 8 ottobre 1999, Massarenti; Cass. Pen. Sez. III 25 agosto 1994, Simonelli). In altri termini, il delegante deve essere messo nelle condizioni di operare autonomamente le scelte necessarie all’adempimento del precetto legale delegato, con il solo limite della discrezionalità. Sicché l’effetto scriminante della delega dovrà certamente essere escluso nel caso in cui le deficienze nell’operato del delegato siano conseguenza di politiche o di prassi aziendali volute dai vertici o da loro colposamente ignorate, oppure quando dipendano da una carente capacità di spesa (Cass. Sez. I 24 settembre 1994 n. 10129, Scauri; Cass Pen. Sez. III 30 agosto 2000 n. 9378, Guardone).
 

Invece la posizione della giurisprudenza sul rapporto tra delega di funzioni e dimensioni aziendali è mutata nel tempo. Tradizionalmente i giudici erano orientati ad ammettere la delega di funzioni esclusivamente in contesti imprenditoriali di grandi dimensioni, ritenendo che solo in questi ambiti l’imprenditore fosse davvero impossibilitato ad adempiere personalmente agli obblighi legali posti a suo carico e, pertanto, occorresse trasferirli ad altri appositamente incaricati (Cass. Pen. Sez. III 18 maggio 2002, Fornaciari; Cass. Pen. Sez. III 17 gennaio 2000 n. 422, Natali; Cass. Pen. Sez. VI 4 settembre 1997, Premia; Cass. Pen. Sez. III 23 aprile 1996, Zanoni; Cass. Pen. Sez. III 26 maggio 1994, Del Maestro). Seguendo questa impostazione, si era giunti sino ad escludere a priori la possibilità della delega di funzioni nelle imprese a gestione familiare non ammettendo che qui il titolare potesse avere il bisogno di trasferire i poteri necessari ad adempiere agli obblighi di legge né potesse sottrarsi alla conoscenza, o comunque alla percezione, delle eventuali violazioni (Cass. 15 luglio 1994 n. 8094, Galvagno).
 

Questo orientamento, che intende la dimensione aziendale in senso quantitativo, è rimasto prevalente sino all’anno 2004 quando si è aperto un dibattito all’interno della Corte di Cassazione: se con la sentenza 17 maggio 2004 n. 21745, Valle, i giudici hanno ribadito che “le limitate dimensioni dell’impresa non giustificavano alcun trasferimento di poteri”, pochi mesi dopo con la sentenza 26 maggio 2004 n. 1112, Carraturo, hanno concluso che la necessità di decentrare compiti “non può escludersi a priori, nelle piccole e medie aziende” vista la sempre crescente complessità dell’attività produttiva, nonché l’aumento delle norme da rispettare spesso, peraltro, di elevato contenuto tecnico richiedente il ricorso ad esperti. Pertanto, secondo la sentenza “Carraturo”, nell’indagare l’effettiva capacità scriminante della delega di funzioni, il titolare deve provare non le grandi dimensioni dell’azienda ma la coerenza tra la redistribuzione dei compiti e la concreta necessità di razionalizzare l’attività produttiva. In altri termini, il delegante deve provare che la delega non costituisce un mero tentativo di liberarsi di talune responsabilità attribuendole a soggetti che si trovano più in basso nella scala gerarchica ed organizzativa dell’impresa, ma un modo per meglio adempiere agli obblighi di legge. Tale indagine, che si tradurrà in un accertamento di fatto, sarà tanto più stringente quanto più ridotte sono le dimensioni dell’azienda e la gestione di tipo familiare.
 

Questo orientamento, che legge il criterio dimensionale in termini qualitativi e non quantitativi, è ancora una volta il frutto della pratica osservazione della realtà imprenditoriale e attualmente può considerarsi quello prevalente (Cass. Pen. Sez. III 12 febbraio 2020 n. 15941, Fissolo più altri; Cass. Pen. Sez. III 31 agosto 2016 n. 35862, Varvarito; Cass. Pen. Sez. III 23 giugno 2017 n. 31364; Cass. Pen. Sez. III 23 marzo 2020 n. 10430).
 

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Va però segnalato che di recente, partendo dall’analogia con il settore della sicurezza del lavoro, la sentenza Cass. Pen. Sez. III 2 luglio 2015 n. 27862 e poi la sentenza 20 novembre 2017 n. 52636 si sono spinte anche oltre al principio sancito con il provvedimento n. 1112/2004 Carraturo, affermando che “in tema di reati ambientali, non è più richiesto per la validità ed efficacia della delega di funzioni, che il trasferimento delle stesse sia reso necessario dalle dimensioni dell’impresa o, quanto meno, dalle esigenze organizzative della medesima, attesa l’esigenza di evitare asimmetrie con la disciplina in materie di prevenzione degli infortuni sul lavoro, la quale (…) non contempla più tra i requisiti richiesti per una delega valida ed efficace quello delle “necessita” (in materia di infortuni sul lavoro si veda la sentenza Cass. Pen. Sez. IV n. 39158/13, Zugno).
 

Sempre in ambito di requisiti oggettivi, un altro tema su cui si segnala la permanenza di un leggero contrasto giurisprudenziale all’interno della Suprema Corte, è la necessità della forma scritta ai fini della validità della delega di funzioni. Pur partendo dal comune e consolidato principio che “in tema di responsabilità penale all’interno di un ente collettivo, la delega di funzioni perché possa considerarsi liberatoria nei confronti di chi non abbia la rappresentanza e gestione, deve avere comunque forma e contenuto chiaro” (Cass. Pen. Sez. III 11 giugno 2004 n. 26390) e che non può essere desunta dalla ripartizione interna dei compiti tra i dipendenti dell’azienda (Cass. Pen. Sez. IV 9 gennaio 2001 n. 39, Colombo), si distinguono sentenze che affermano che la delega di funzioni non necessita di atto scritto (Cass. Pen. Sez. III 26 maggio 2003 n. 22931, Conci; Cass. Pen. Sez. III 29 gennaio 2009 n. 9489, Cass. Pen. Sez. III 24 giugno 2016 n. 26434), mentre altre individuano nella forma scritta una condizione per la validità della delega (Cass. Pen. Sez. III 3 dicembre 1999 n. 422, Natali; Cass. Pen. Sez. III 12 febbraio 2004 n. 5777, Maraglio; Cass. Pen. 17 ottobre 2012 n. 16452). A prescindere dalla posizione assunta nell’ambito di questo dibattito (a parere di chi scrive appare più condivisibile l’orientamento che la richiede come requisito di validità) rimane comunque uno stretto legame tra forma scritta e onere della prova della delega di funzioni, come peraltro messo in evidenza anche dalla terza sezione della Corte di Cassazione nella sentenza 19 aprile 2006 n. 13706, Auletta, ove si ribadisce che “la forma scritta, ancorché non richiesta per la validità dell’atto, ha tuttavia un’efficacia determinante ai fini della prova”.
 

Venendo ai requisiti soggettivi delle delega di funzioni.
 

Rispetto alle condizioni oggettive appena esaminate, i requisiti soggettivi riguardano più strettamente la figura del delegato ed il suo rapporto con il titolare della funzione. La giurisprudenza, ricordiamo, ritiene valida la delega solo se conferita ad un soggetto tecnicamente competente, libero da ingerenze del delegante e pienamente consapevole dell’incarico conferitogli.
 

Quanto alla professionalità del soggetto incaricato, la Suprema Corte già nel 1998 aveva preso chiaramente posizione subordinando, in tema di gestione dei rifiuti, l’efficacia liberatoria della delega di funzioni alla condizione che “il soggetto delegato sia idoneo da un punto di vista professionale” (Cass. Pen. Sez. III 30 novembre 1998 n. 2860). Si tratta di un principio rimasto costante nel tempo e sempre confermato nelle numerose sentenze emesse in tema di delega di funzioni. Da esso si è ricavato un corrispondente obbligo per il delegante di verificare, prima della scelta, la preparazione tecnica e professionale del soggetto individuato come potenziale incaricato, per non incorrere in responsabilità per culpa in eligendo. Come precisato dalla sentenza Cass. Pen. Sez. III 28 aprile 2004, infatti, in caso di scelta impropria del delegato, il delegante risponderà penalmente “perché il legale rappresentante, anche se non svolge mansioni tecniche, è pur sempre preposto alla gestione della società”. Non si tratta, tuttavia, di una responsabilità di tipo oggettivo (connessa alla mera posizione apicale), ma deriva direttamente dal dovere del delegante di operare diligentemente, in quanto titolare dei generali poteri gestori ed organizzativi dell’impresa.
 

Tali poteri impongono che, una volta operata la scelta del delegato, il delegante vigili sul permanere della sua competenza, affinché “il livello di tutela rimanga adeguato e non si verifichi un’elusione di fatto delle norme di protezione” (Cass. Pen. Sez. III 22 aprile 2020 n 12642).
 

Per rispondere a questa esigenza la giurisprudenza ha introdotto, tra i requisiti soggettivi, la mancata conoscenza della negligenza o della sopravvenuta inidoneità del delegato, nonché l’assenza di specifiche richieste di intervento da parte (cfr. le sentenze già citate in tema di requisiti della delega). Entrambi questi requisiti fanno riferimento a quelle situazioni in cui il delegante acquisisce la consapevolezza del venire meno della competenza del delegato, in generale o rispetto al caso specifico, e pertanto della sua inidoneità ad adempiere esattamente il precetto di legge. Ne consegue che la delega (che ha trasferito tale onere sul delegato) non può più escludere la responsabilità del delegante che, in funzione di garante primario dell’osservanza delle norme penalmente presidiate, è tenuto ad intervenire per prevenire o porre rimedio all’infrazione commessa. Già nel 1989 la sentenza “Tedesco” (Cass. Pen. Sez. IV 10 ottobre 1989 n. 13303) si esprimeva in modo chiaro su questo punto affermando che, in caso di inidoneità sopravvenuta del delegato, il delegante “ha il preciso dovere di intervenire per rimuovere la situazione antigiuridica perché la delega, in quel momento, non vale ad esonerarlo da responsabilità”.
 

Il limite di tale dovere di vigilanza e intervento è fissato dal divieto di ingerenza (ulteriore requisito soggettivo della delega di funzioni). Nell’adempiere la propria funzione di garante, infatti, il delegante non può interferire nelle decisioni tecniche del delegato e deve sempre rispettarne la competenza e l’autonomia, già assicurate, sotto il profilo oggettivo, dal potere di spesa. La sua prerogativa di vertice dell’azienda è piuttosto quella di intervenire per contenere la discrezionalità del delegante nel suo concreto operare, impartendo direttive e linee guida incisive che gli consentano di governare efficacemente l’attività e così ridurre il rischio di commissione di violazioni da parte del delegato. Se però il delegante eccede rispetto tale limite ed ingerisce direttamente sull’attività del delegato “la condotta posta in essere dovrebbe essere a lui imputata” e la delega non può più avere efficacia liberatoria, come chiarito dalla sentenza Cass. Pen. Sez. IV 18 ottobre 1990 sentenza 13726, Sbaraglia e, più di recente, dalla sentenza Cass. Pen. Sez. III 2 febbraio 2020 n. 15941, Fissolo.
 

La chiarezza del contenuto della delega riveste, quindi, un ruolo centrale ai fini del corretto esercizio dei poteri che da essa derivano, sia per il delegato sia per il delegante. Si rammenta che, da un punto di vista oggettivo, tale chiarezza è garantita dal requisito della puntualità e specificità del testo della delega. Sotto il profilo soggettivo, invece, la giurisprudenza l’ha legata alla consapevolezza che il delegante ha delle funzioni attribuitegli. Pertanto, tra i requisiti di validità è inserita anche l’accettazione espressa da parte dell’incaricato, come segno della comprensione degli obblighi e delle responsabilità che gli sono state trasferite (Cass. Pen. Sez. III n. 6872/11, già citata) e che dovrà adempiere in luogo del delegante, sul quale residuerà un obbligo di vigilanza. Si tratta del medesimo obbligo espressamente previsto dall’art. 16 del D.lgs. 81/2008 che, come già detto, può applicarsi per analogia anche nel settore ambientale.
 

Occupandosi di tale obbligo di vigilanza, la Suprema Corte a sezioni unite (sentenza n. 38343/14 già citata) lo ha definito come “un obbligo di vigilanza “alta” che riguarda il corretto svolgimento delle proprie funzioni da parte del delegato”.

La diligenza che è richiesta al rappresentante dell’impresa è, dunque, quella massima che si può legittimamente pretendere da chi occupa una posizione apicale ed ha pertanto il potere di definire, oltre alla struttura, anche le politiche aziendali e di controllarne l’applicazione.

Lo strumento principale dell’esercizio di questi poteri sono le direttive. Per questo, pur in assenza di uno specifico obbligo formale, il dovere del responsabile dell’impresa è innanzitutto quello di impartire le direttive e le linee guida necessarie per organizzare e governare l’attività aziendale, compresa quella dei collaboratori e quindi anche del delegato in materia ambientale. Tali direttive devono servire come limite concreto alla discrezionalità del delegato così da contribuire, agevolando il controllo, alla riduzione del rischio (sempre presente) di violazione di quelle norme penalmente protette rispetto alle quali il delegante resta sempre garante primario. L’assenza o la carenza di direttive costituisce, pertanto, una condotta colposa imputabile al delegante e fonte di responsabilità in quanto contraria al dovere di vigilanza che residua a suo carico a seguito della delega. Se poi le direttive impartite sono l’espressione di politiche aziendali in contrasto con le norme ambientali, allora il delegante risponderà della conseguente violazione commessa dal delegato non per colpa ma per dolo, avendo contribuito a determinarla e avendone avuto piena e totale conoscenza.

 

Come si è già avuto modo di dire, la consapevolezza della contrarietà della condotta del delegato alle norme di legge è determinante perché impone al delegato un obbligo di intervento. Per evitare, quindi, di incorrere in un’omissione che comporterebbe responsabilità a suo carico, il delegante è tenuto a fare tutto quanto necessario per conoscere i contorni dell’operato del delegato. Su questo tema, è principio consolidato in giurisprudenza che sia obbligo del delegante attivarsi per acquisire almeno le nozioni necessarie ad avere, secondo l’ordinaria diligenza, una conoscenza generale del settore in cui opera e delle norme che lo regolamentano cosicché, seppure non esperto, sia in condizione di percepire eventuali violazioni poste in essere dal delegato o, prima ancora, il relativo rischio.

Il delegante sarà, quindi, sempre responsabile quando le infrazioni dell’incaricato risultino macroscopiche per il modo o per il contesto aziendale in cui sono state commesse. In tal caso il vertice dell’azienda non potrà sostenere di non aver avuto conoscenza della contrarietà alle norme di legge dell’operato del delegato, e così farsi scudo della delega di funzioni. Di recente la già citata sentenza “Frossasco”, affrontando il tema della responsabilità del delegante nell’ambito della gestione dei rifiuti, ha affermato che “il rendiconto dei costi e dei risultati rendesse di immediata percezione il rispetto o meno dei limiti previsti dalla autorizzazione provinciale, con la conseguenza che la mancata osservanza della suddivisione delle aree di stoccaggio dei vari rifiuti metallici era, anch’essa, circostanza di altrettanto evidente percezione”.

Con riferimento alla rilevanza del contesto in cui viene commessa la violazione, si richiama la già citata sentenza “Fissolo”, nella quale la Suprema Corte ha precisato che “trattandosi di un’impresa a gestione familiare (…) quantomeno con riferimento al deposito dei rifiuti (…) fosse palese e macroscopica la violazione del richiamato disposto di legge, che poteva essere rilevata anche da chi non avesse particolari competenze tecniche”.

 

Più problematica è, invece, l’indagine sulla culpa in vigilando quando l’infrazione del delegato riguardi aspetti strettamente tecnici e particolarmente complessi del suo operato. Infatti, se da un lato non si può pretendere dal delegante l’acquisizione di competenze di livello specialistico, neppure si può escluderne la responsabilità ogniqualvolta si ponga una questione tecnicamente complessa, perché in questo modo si rischierebbe di svuotarne la funzione di garanzia. Secondo la prevalente giurisprudenza, in caso di violazione attinenti ad aspetti tecnici dell’attività del delegato, il delegante risponderà per la violazione dell’obbligo di vigilanza qualora non sia in grado di conoscerla con l’ordinaria diligenza (ma necessiterebbe dell’intervento di un ulteriore esperto).

 

Resta, invece, del tutto esclusa la responsabilità del vertice aziendale quando l’inadempienza del delegato non sia riconducibile ad una preventiva politica aziendale o sia frutto di iniziative estemporanee e circoscritte dell’incaricato. In tale caso, infatti, salvo la prova della macroscopicità della mancanza o del dolo, non può ascriversi al responsabile dell’azienda alcuna colpa per la violazione dell’obbligo di vigilanza (Cass. Pen. Sez. III 5 giugno 2020 n. 17174 Ceirano).

 

Quanto alle modalità con cui il delegante deve esercitare il richiesto controllo sull’operato del delegante per non incorrere in responsabilità, la giurisprudenza ha pacificamente escluso che debba trattarsi di un controllo costante sullo svolgimento delle attività trasferite. Piuttosto, ciò che è richiesto al responsabile dell’impresa è di verificare la complessiva gestione che il delegato fa delle funzioni attribuitegli, per valutarne la globale conformità alla normativa in tema ambientale. La Corte di Cassazione si è così espressa di recente con la sentenza “Fissolo”:”Quanto alla natura ed ai contenuti dell’obbligo di vigilanza del delegante (…) non è imposto il controllo, momento per momento, delle modalità di svolgimento delle funzioni trasferite, essendo invece richiesto di verificare la correttezza della complessiva gestione da parte del delegato”. Per la stretta analogia tra i settori, si citano anche le sentenze Cass. Civ. Sez. IV 21 aprile 2016, Visconti e Cass. Civ. Sez. IV del 01 febbraio 2012 n. 10702, Mangone, che hanno affrontato il tema relativamente alla responsabilità del datore di lavoro in caso di infortunio, confermando il medesimo principio.

 

In conclusione, come ben sintetizzato nell’interessante sentenza Cass. Pen. Sez. III 15 gennaio 2021 n. 1719, anche in campo ambientale, chiunque abbia la responsabilità di amministrare un’impresa deve adempiere agli obblighi normativi puntualmente sanzionati, e può farlo o personalmente o attraverso la delega di funzioni sulla base dei requisiti di validità elaborati dalla giurisprudenza, benché questo istituto non sia espressamente codificato.

 

Il titolare dell’impresa, però, non può mai abdicare all’obbligo di vigilanza che è posto a suo carico, in quanto espressione propria del suo ruolo apicale e di quella connessa funzione di garanzia dei beni giuridici primari che il costituente ha ritenuto, direttamente o indirettamente, meritevoli di tutela. Tra questi c’è l’ambiente.

 

 

Piacenza, 7 aprile 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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