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Stefano Maglia

Manifesto della sostenibilità

di Elisabetta Odaglia

Categoria: Sviluppo sostenibile

“Credo che avere la terra e non rovinarla sia la più bella forma d’arte che si possa desiderare.”
Andy Warhol

Nella storia abbiamo avuto diversi esempi di “Manifesti”, intesi come espressione sintetica di una opposizione ad un’ideologia di solito viceversa prevalente: si pensi al Manifesto del Simbolismo di Jean Moréas del 1886, nato per contrastare la corrente culturale conosciuta come Verismo perché troppo impersonale e priva di emozioni; o ancora al Manifesto del Futurismo che invece nacque come reazione alla cultura borghese dell’Ottocento, considerata troppo poco “dinamica”.
Questo scritto per parte sua intende prendere le distanze dal cd. BAU (Business-as-usual) – traducibile come la ricerca del profitto e del consumo malgrado tutto – proponendo un approccio più equilibrato che tenga in considerazione non solo la sfera economica, ma anche quella sociale ed ambientale e le loro necessarie (e complicate) interazioni. L’elaborato analizzerà il concetto di sostenibilità sotto tre diversi profili, quello storico, quello metodologico ed infine quello fenomenologico.
L’interesse ambientale in Europa ha la sua origine negli anni 60-70, periodo in cui cominciano a fiorire le prime associazioni ambientaliste. Queste avevano come primo scopo quello di bilanciare il rapporto tra economia e ambiente, considerando intanto l’importanza della preservazione del patrimonio naturale, nonché l’esauribilità delle risorse utilizzate; esplicita l’opposizione all’industrializzazione incontrollata, causa già in allora di deterioramento ambientale e diseguaglianza socio-economica. Si badi che con questo non si vuole negare l’importanza dell’industrializzazione in sé; è doveroso riconoscere che questo periodo ha portato con sé anche grandi e fondamentali innovazioni. Tuttavia non si può trascurare l’importanza di una ricerca volta a mantenere gli equilibri tra i diversi interessi in gioco, necessariamente alterati dall’introduzione di un sistema di produzione industrializzato. Anche se ancora non si può parlare di sviluppo sostenibile, i primi a tendere a questo interesse furono gli scienziati del Club di Roma, che nel 1968 commissionarono al MIT (Massachussetts Institute of Technology) l’elaborazione di un rapporto che venne pubblicato nel 1972 con il titolo “Limits to Growth e presentato al pubblico italiano nella traduzione “I limiti dello sviluppo”.[1] Ritengo che tale traduzione sia vagamente ambigua e che sarebbe più adeguato utilizzare il termine “crescita”; l’elaborato in esame si pone l’obiettivo di indagare le cause e le conseguenze della crescita di cinque fattori: popolazione, capitale industriale, produzione di alimenti, consumo di risorse naturali e inquinamento. Una prima distinzione tra BAU e sostenibilità è di tipo metodologico: il primo punta esclusivamente alla quantità della produzione, la seconda invece alla qualità del prodotto e del metodo per ottenerlo. Altra data importante è il 22 aprile 1970, giorno in cui si tenne il primo Earth Day: venti milioni di americani scesero in piazza, segnando l’inizio del movimento ambientalista moderno e sottolineando la necessità di preservare gli equilibri naturali. Nel 1972 fu emessa dall’ONU la Dichiarazione di Stoccolma, che per la prima volta pose a livello mondiale la questione ambientale e legò il concetto di sviluppo, benessere sociale e economico a quello di ambiente, in quanto valore da tutelare per noi tutti e per le generazioni future. Sebbene tale dichiarazione e il pedissequo piano d’azione non parlino direttamente di sostenibilità, essi racchiudono in sè quelli che ne sono i principi fondamentali, volti ad una politica di sviluppo integrata e coordinata a livello mondiale. Tutti sono chiamati ad impegnarsi nella conservazione della Terra e dell’uomo stesso, presente e futuro: uomini, governi e Stati, come proclama la Dichiarazione stessa. Fu inoltre istituito il cd. UNEP (United Nations Environment Programme) a Nairobi, Kenya. Sempre nel 1972 venne mandato in orbita il primo Landsat (satelliti per telerilevamento aventi scopi non militari, ma di osservazione della Terra in campo di ambiente, risorse e cambiamenti naturali e artificiali avvenuti sulla superficie terrestre). Dunque si può dire che gli anni ’70 siano stati la “culla” dell’interesse ambientale, interesse che nel tempo ha assunto anche caratteri politici rilevanti (si pensi ad esempio al caso della Germania, dove il partito dei Gruene (Verdi) nel 1983 ottenne ben 27 seggi nel Bundestag (Parlamento), fatto che venne letto come l’inizio di una rivoluzione verde). Degne di menzione sono anche altre Conferenze tenutesi nel 1972: Convenzione dell’UNESCO a Parigi sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale e la Convenzione di Londra sulla prevenzione dell’inquinamento marino da immersione (scarico) di rifiuti e altre sostanze. In tema anche la prima conferenza mondiale sul clima, tenutasi a Ginevra, nel 1979. La successiva tappa fondamentale della sostenibilità fu il 1987, quando la World Commission on Environment and Development stilò il cd. “Rapporto di Brundtland”, dal nome del primo ministro norvegese, elaborato conosciuto anche come “Our common Future”. In questo rapporto si definisce sviluppo sostenibile quello sviluppo che “garantisce i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere la possibilità che le generazioni future riescano a soddisfare i propri” e che dovrebbe realizzarsi in particolare attraverso attività orientate alla ecogestione del territorio e delle attività antropiche, senza che questo significhi trascurare l’aspetto economico e sociale. I punti salienti dei ventuno principi che enuncia si possono riassumere in svariate raccomandazioni[2] atte alla realizzazione dello sviluppo sostenibile e ad una generale critica all’inadeguatezza delle istituzioni nazionali e internazionali in materia. Sull’onda del rapporto di Brundtland, nel 1991 l’ONU pubblicò il documento conosciuto come Caring for the Earth: A Strategy for Sustainable Living che si pose quale obiettivo il miglioramento della qualità della vita nel rispetto dei limiti della capacità di carico degli ecosistemi che ci sostengono. Si giunge così al 1992, altro anno fondamentale per la sostenibilità, in cui le Nazioni Unite stilarono una convenzione, conosciuta come “Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici” (UNFCCC). Tale trattato internazionale è “figlio” del primo summit sulla Terra, tenutosi a Rio de Janeiro tra il 3 il 14 giugno 1992, firmato da 165 Stati su 183 presenti. Grazie alla cd. “Dichiarazione di Rio”, la sostenibilità divenne un interesse su scala mondiale. Dai ventisette principi sanciti in questa Dichiarazione scaturì un piano d’azione, detto anche Agenda21, ovvero le “cose da fare” entro il 21° secolo nell’ambito dei rapporti tra politiche ambientali ed economiche. Tale agenda si suddivide in 40 capitoli, a loro volta suddivisi in quattro parti dedicate rispettivamente alla dimensione economica e sociale, quella ambientale, quella socioculturale e infine i mezzi di esecuzione del programma. Per quanto ricca di principi la Dichiarazione è un testo autorevole, giuridicamente non vincolante, avente lo scopo di creare un consenso globale, sulla gestione, conservazione e sviluppo sostenibile del futuro. L’impegno di cui si fa baluardo promuove l’agire soprattutto a livello locale: indubbiamente il riconoscimento di un impegno globale socio-ambientale è di fondamentale importanza, almeno per quanto riguarda l’aspetto formale; ma perché tutto ciò si attui nel concreto è necessario agire prima di tutto in luoghi ben circoscritti, aventi ciascuno esigenze e problematiche diverse. Non a caso uno dei suoi slogan più in voga recita “pensare globalmente, agire localmente”. Il primo risultato concreto della Dichiarazione di Rio si avrà cinque anni più tardi con il Protocollo di Kyoto (frutto della COP3[3]). Questo trattato internazionale è un vero e proprio inno all’ambiente e all’equità sociale; esso si pone come obiettivo la riduzione delle emissioni dei sei principali gas ad effetto serra[4] del 5,2% nel periodo tra il 2008 e il 2012 rispetto ai livelli del 1990. Tale riduzione, però, non è richiesta a tutti i Paesi, ma solo a quelli industrializzati (OECD) e quelli caratterizzati da un’economia in transizione; sono esclusi dunque i Paesi poveri e quelli in via di sviluppo (PVS).[5] Il Protocollo adottato a Kyoto, stilato nel 1997, entrò in vigore il 16 febbraio 2005, dopo la ratifica della Russia, ed è scaduto il 31 dicembre 2012. L’obiettivo, non avendo mai ratificato Usa e Australia, si ridimensionò in una riduzione delle emissioni del 3,4%[6]. Nel 2007 alla Bali Climate Change Conference si stabilì un piano per il “post-Kyoto” con cui le Nazioni si impegnano ad aiutare i PVS e gli ecosistemi naturali, in particolare quelli dei paesi più poveri, spesso depredati. Nel 2009 a Copenhagen si tenne un altro summit con cui si riconobbe (ancora una volta) la necessità di ridurre le emissioni e di contenere l’aumento della temperatura della Terra entro i 2°C. Anche questo testo si dimostra assolutamente ricco di valori e buoni propositi, ma dal punto di vista pratico si presenta alquanto lacunoso, al punto che spesso se ne parla come un fallimento. Importante fu anche la conferenza tenutasi nel 2012 a Doha (Qatar) con cui si ribadì quanto stabilito l’anno precedente a Durban, ovvero che così proseguendo non si sarebbe potuta contenere la temperatura entro i limiti stabiliti. Inoltre si optò per un’estensione temporale del Protocollo di Kyoto al 2020 e per una riduzione delle emissioni compresa tra il 25 e il 40%. Quanto detto sinora in sostanza si è ripetuto nelle successive conferenze sino al 2014. [7] Si nutrono grandi speranze nella Conferenza che si terrà quest’anno a Parigi, che si pone l’obiettivo principale di creare il fatidico vincolo legale (ancora vacante di fatto) a tutte queste buone parole, così da attuarle nel concreto; a spingere verso questa soluzione è anche l’allarmante monito dello State of the World 2014 che ha espressamente dichiarato che entro il 2050 più di metà dell’energia del pianeta dovrà essere prodotta da fonti a basse emissioni di inquinanti atmosferici ed i combustibili fossili dovranno essere completamente eliminati come fonte di energia entro il 2100. Se queste indicazioni non saranno seguite, «le continue emissioni di gas serra causeranno un ulteriore riscaldamento (oltre i 2°C stabiliti) e cambiamenti di lunga durata in tutte le componenti del sistema climatico, aumentando la possibilità di severe, pervasive e irreversibili conseguenze per l’umanità e per l’ecosistema». Per concludere, adottare un sistema sostenibile certamente non assicura che quanto previsto non si avveri comunque, tuttavia è una alternativa valida al sistema “puramente” industriale. A differenza del sistema di produzione industriale, quello sostenibile tiene in medesima considerazione ciascuna dimensione “umana” (quella sociale, ambientale ed economica attuale e futura). Optare per un sistema sostenibile, dunque, non significa abbandonare totalmente quello industriale, ma rendere possibile una convivenza tra tutti gli interessi necessari a garantire a ciascun essere una vita dignitosa.
Definito il concetto di sostenibilità è opportuno passare dall’aspetto teorico a quello pratico. La questione è come si realizza la sostenibilità, intesa questa come ricerca di equilibrio tra i fattori indispensabili alla vita dell’essere umano ovvero l’economia, il benessere sociale e quello ambientale. Farò qui una rassegna di alcuni strumenti a nostra disposizione, tentando di suddividerli all’interno di queste macromaterie. Comincerò dall’aspetto ambientale per poi passare a quello sociale ed infine a quello economico.
Per quanto riguarda l’ambiente ritengo opportuno analizzare quei mezzi che sono Life Cycle Thinking e Life Cycle Assessment; Sistemi di Gestione Ambientale, ISO 14000 e Regolamento EMAS. Invece per quanto riguarda l’aspetto socio-culturale mi dedicherò in particolare al cd. Green Job e in generale alla Green Economy; voglio mostrare come l’interesse ambientale non sia utile o interessante solo per i “verdi” del caso, ma sia anche un’occasione per tutti gli appartenenti al mondo del lavoro, in grado di aumentare le possibilità di domanda e offerta, nazionale e internazionale. Per concludere darò alcuni cenni all’aspetto economico, in quanto interesse socio-ambientale ed economia del consumo sono l’uno l’antitesi dell’altra. E’ opinione comune che ciò che è pro ambiente non è economico nè proficuo, e viceversa. Smentirò questa convinzione rifacendomi ad aziende che sono riuscite ad essere “verdi” senza andare “in rosso” e in seguito sottolineando il ruolo primario e “salvifico” del Green Thinking anche per realtà più piccole e meno facoltose, in particolare nelle piccole e medie imprese (PMI).
Il Life Cycle Thinking (LCT) è un approccio inizialmente conosciuto con il nome di “from cradle to grave analysis”, tradotto analisi dalla culla alla tomba. Esso trae le sue origini dagli anni ’70 negli USA ed ha il principale obiettivo di migliorare le prestazioni energetiche ed ambientali di un sistema industriale nel suo insieme (e non di ciascun suo componente, considerato singolarmente). Per farlo, ad esempio, si sono posti a confronto diversi materiali utilizzati per medesimi scopi, a parità di prestazioni. Si ricordi quello voluto dalla The Coca Cola Company negli anni ’70 che volle analizzare quale fosse il materiale migliore da un punto di vista ecologico ed energetico tra plastica, vetro e alluminio, dando larga considerazione alla modalità di “fine vita” di ciascun materiale. Considerato che non esistono processi produttivi (e quindi prodotti) a costo energetico ed ambientale nullo, la via è quella di comprendere come tali processi funzionino per poi proporre azioni di miglioramento; alla ricerca della cd. BAT (Best Available Techniques). Dunque LCT è un approccio complessivo che analizza rischi e fattori d’impatto di tutte le fasi di produzione.[8] Il principale strumento di cui si servono tanto i sistemi socioeconomici nazionali quanto l’imprese adottanti il LCT è il LCA (Life Cycle Assessment), ovvero il sistema di valutazione del ciclo di vita. Il LCA è oggi uno strumento affermato a livello internazionale e i suoi campi di applicazione si stanno rapidamente ampliando verso settori nuovi rispetto a quelli produttivi tradizionali. [9] Quando applicato ad un sistema industriale il LCA consente la ricerca dell’efficienza sistemica in tema di salvaguardia della salute dell’ambiente e dell’uomo, nonché di risparmio delle risorse. L’interesse di attuarlo per il soggetto pubblico è evidente, almeno in teoria: è la via migliore per perseguire le politiche di sviluppo sostenibile. Nel settore produttivo privato, invece, che tipo di vantaggio si può ottenere dall’applicare una metodologia del tipo LCA? In primis essa consente all’imprenditore di valutare il suo sistema produttivo complessivamente, semplificando l’adeguamento alle norme di legge e agli standard minimi da garantire che permettono a loro volta di evitare severe sanzioni. Un sistema di questo tipo consente di utilizzare diversi approcci innovativi, tra cui l’etichettatura ecologica (cd. ECO-Label). Quanto analizzato sinora è regolamentato dalle norme internazionali ISO della serie 14000, dedicata ai Sistemi di Gestione Ambientale (SGA). A tale serie si rifà anche la norma di ordine comunitario, conosciuta come Regolamento EMAS (ECO-Managment and Audit Scheme). La norma ISO 14000 e il Regolamento EMAS sono i due principali strumenti di certificazione di uno SGA, nonostante il loro stretto collegamento vi sono alcune differenze:

ISO 14000Regolamento EMAS
Norma InternazionaleRegolamento Europeo
Certifica il sistemaConvalida la conformità della dichiarazione ambientale
Ente di certificazione privato autorizzatoRegistrazione Organismo Istituzionale pubblico
Rispetto implicito della conformità legislativaRispetto vincolante della conformità legislativa
Analisi Ambientale Iniziale consigliataAnalisi Ambientale Iniziale obbligatoria
Nessuna Dichiarazione Ambientale PubblicaDichiarazione Ambientale Pubblica

Entrambi gli strumenti consentono dunque di implementare la visibilità dell’azienda: ISO consente di farlo in tutto il mondo, mentre EMAS è limitato territorialmente all’Unione Europea. Sia la norma ISO 14000 sia il Regolamento EMAS dimostrano l’impegno ambientale dell’azienda. Tuttavia EMAS si spinge oltre: da un lato certificando il risultato di eccellenza in miglioramento ambientale, dall’altro imponendo il continuo miglioramento a chi sia iscritto e prevedendo incentivi economici statali e/o regionali.[10] L’ulteriore vantaggio che il privato può ottenere adottando queste certificazioni è di tipo pubblicitario.
Passando ora all’aspetto sociale, darò prima una definizione dei termini Green Economy e Green Job per poi identificare i settori di maggior espansione di quest’ultimo ambito. I dati numerici che richiamerò sono presi dal Rapporto GreenItaly 2014. La Commissione Europea definisce il termine Green Economy come “un’economia che genera crescita, crea lavoro e sradica la povertà investendo e salvaguardando le risorse del capitale naturale da cui dipende la sopravvivenza del nostro pianeta”[11]. Similmente l’UNEP ritiene che la Green Economy sia un’economia a basse emissioni di CO2, che si oppone allo sfruttamento e allo spreco incontrollato delle risorse naturali, con l’obiettivo di creare benessere ed equità sociale limitando i rischi ambientali e utilizzando mezzi sostenibili. Riguardo i Green Jobs, questi possono essere definiti come “occupazioni nei settori dell’agricoltura, del manifatturiero, nell’ambito della ricerca e sviluppo, dell’amministrazione e dei servizi che contribuiscono in maniera incisiva a preservare o restaurare la qualità ambientale. Queste includono attività che aiutano a tutelare e proteggere gli ecosistemi e la biodiversità; a ridurre il consumo di energia, risorse e acqua tramite il ricorso a strategie ad alta efficienza; a minimizzare o evitare la creazione di qualsiasi forma di spreco o inquinamento” [12]. I settori in cui il Green Thinking si presenta come un vero e proprio volano in ambito lavorativo sono[13]:
I. la gestione integrata dei rifiuti: definibile come il coordinamento e l’ottimizzazione delle azioni necessarie alla raccolta ed al trattamento dei rifiuti, con lo scopo di massimizzare il recupero e il riciclo e minimizzare lo smaltimento in discarica. Si richiede dunque di utilizzare meno “nuove” risorse e di sfruttare quelle già possedute, evitando sprechi e danni alla salute umana ed ambientale. A livello nazionale questo tipo di gestione è introdotto con il D.Lgs. 22/1997, cd. Decreto Ronchi, mentre a livello europeo è proposto con la Direttiva 2008/98/CE.
II. l’edilizia sostenibile: il settore edilizio è fortemente responsabile dei consumi di energia e delle emissioni di anidride carbonica, tuttavia è possibile coniugare le esigenze e l’evoluzione dell’edilizia, con il rispetto dell’ambiente, del territorio e della salute dell’uomo. In questa direzione si stanno muovendo i primi passi. La Direttiva Europea 2010/31/UE prevede che entro il 31 dicembre 2020 tutti gli edifici di nuova costruzione siano edifici a “energia quasi zero”; per quanto riguarda gli edifici di nuova costruzione occupati da enti pubblici e di proprietà di questi ultimi questo obiettivo è fissato per il 31 dicembre 2018. Gli edifici a “energia quasi zero” sono edifici sfruttanti fonti di energia disponibili in loco, a basso costo, non inquinanti e rinnovabili. Il settore del green building in Italia ha già dato origine a 236 mila posti di lavoro e secondo alcune stime nel 2017 potrebbe arrivare anche a 400 mila posti di lavoro.
III. la mobilità sostenibile e i trasporti: i trasporti delle persone e delle merci, sebbene indispensabili, comportano un altissimo consumo di energia; ad essi sono in capo circa un terzo dei consumi energetici nei Paesi dell’Unione Europea. Il fabbisogno energetico di cui si necessita ad oggi è perlopiù soddisfatto da fonti non rinnovabili. In materia di trasporti l’UE ha imposto obblighi vincolanti, come la produzione di energia da fonti rinnovabili nel settore (che nel 2020 dovrà essere almeno pari al 10% del consumo finale di energia), e non vincolanti, per i quali si rimanda ad esempio al cd. “CARS 2020” (un piano d’azione per un’industria automobilistica competitiva e sostenibile in Europa del 2012). Una mobilità sostenibile è possibile ma è necessaria l’attività di moltissimi e diversi attori.
IV. la produzione di energia da fonti rinnovabili: l’importanza di questo settore è indiscutibile, ci limitiamo qui a darne una definizione concisa ed efficace. L’energia rinnovabile è quell’energia prodotta da fonti energetiche provenienti da risorse naturali che per loro caratteristica intrinseca si rigenerano almeno alla stessa velocità con cui vengono consumate, ovvero non “esauribili” nella scala dei tempi delle “ere geologiche”. Si tratta in sostanza di una forma di energia alternativa (o quantomeno integrativa) alla tradizionale non rinnovabile, fossile. Diversi tipi di energie rinnovabili sono anche “pulite” ovvero prive di emissioni nell’ atmosfera di sostanze inquinanti e/o climalteranti quali ad esempio la CO2. Esse sono alla base della cosiddetta politica verde.
V. l’agricoltura sostenibile e le agro-energie: secondo il Reg. 834/07, “La produzione biologica è un sistema globale di gestione dell’azienda agricola e di produzione agroalimentare basata sull’interazione tra le migliori pratiche ambientali, un alto livello di biodiversità, la salvaguardia delle risorse naturali, l’applicazione di criteri rigorosi in materia di benessere degli animali e una produzione confacente alle preferenze di taluni consumatori per prodotti ottenuti con sostanze e procedimenti naturali. Il metodo di produzione biologico esplica pertanto una duplice funzione sociale, provvedendo da un lato a un mercato specifico che risponde alla domanda di prodotti biologici dei consumatori e, dall’altro, fornendo beni pubblici che contribuiscono alla tutela dell’ambiente, al benessere degli animali e allo sviluppo rurale”. Si calcola che il 45% degli italiani compri cibi biologici regolarmente o saltuariamente. Per quanto riguarda invece la produzione, l’Italia è il secondo paese nell’UE per superficie agricola inves­tita nel biologico (1.317.177 ettari) e detiene anche il primato europeo per numero di agricoltori dediti alla produzione di alimenti “Bio”. Nel 2014 la spesa di prodotti biologici e a chilometro zero ha raggiunto, per la prima volta in Italia, i 20 miliardi di fatturato, in netta controtendenza al calo generale dei consumi alimentari.[14]
VI. la gestione del territorio e il turismo sostenibile: il turismo è sostenibile quando 1) sia tollerabile a lungo termine dal punto di vista ecologico (ovvero non si basi sulla crescita a breve termine della domanda ma sugli effetti a medio/lungo termine del modello turistico adottato); 2) sia dimensionato nel tempo, per ridurre gli effetti legati alla stagionalità, e nello spazio, individuando la capacità d’accoglienza del territorio; 3) sia realizzabile ed equo sul piano economico e sociale; 4) sia prodotto di un’interazione tra industria del turismo, comunità locali e viaggiatori; 5) non sia estraneo all’identità del luogo ma anzi un elemento integrato alla ricchezza culturale ed economica dello stesso.[15]
VII.
le Smart cities: “il concetto di Smart City emerge e si propone non solo come un innovativo modus operandi per il futuro della vita urbana, ma soprattutto come una strategia chiave per combattere la povertà, la disuguaglianza, la disoccupazione e migliorare la gestione delle risorse fondamentali come l’energia, l’acqua, l’ambiente. Una città può essere definita Smart quando gli investimenti effettuati in infrastrutture di comunicazione, tradizionali (trasporti) e moderne (ICT), riferite al capitale umano e sociale, assicurano uno sviluppo economico sostenibile e un’alta qualità della vita, una gestione sapiente delle risorse naturali, attraverso l’impegno e l’azione partecipativa. Ciò implica un nuovo tipo di governance con il coinvolgimento autentico del cittadino nella politica pubblica”[16].
VIII. le cd. Eco-innovazioni: l’eco-innovazione è definibile come l’utilizzo di un nuovo prodotto, processo, sistema gestionale, servizio o procedura, attraverso cui si ottiene, lungo l’intero ciclo di vita, un uso più efficace delle risorse naturali, una riduzione degli impatti negativi sull’ambiente e un aumento della resistenza alle pressioni ambientali. In Italia il 20,6% delle aziende che realizzano ecoinvestimenti ha sviluppato nuovi prodotti o nuovi servizi nel corso del 2013, mentre di quelle che non investono solo l’8,7% vi è riuscito. L’impegno sostenibile sembra ripagare anche sul fronte dei risultati economici: il 18,8% delle imprese ecoinvestitrici ha visto crescere il proprio fatturato nel 2013, mentre tra le non investitrici ciò è successo solo nel 12,6% dei casi.[17]
Tutti questi settori sono in fase di grande sviluppo e portano con sé la possibilità di nuove figure professionali e/o aziendali, oltre a nuovi posti di lavoro provenienti da diverse ambiti scientifici. In termini di ruoli lavorativi veri e propri si pensi ad esempio agli “auditors ambientali” (ex UNI EN ISO 14001) o ancora al cd. “responsabile ambientale”, figura atipica in Italia che tuttavia ha già ottenuto riconoscimenti anche a livello giurisprudenziale.[18] Secondo il Rapporto GreenItaly 2014 “il 70% di tutte le assunzioni previste dalle aziende nel 2014 e destinate ad attività di ricerca e sviluppo sarà coperto da green Jobs”; in crescita rispetto all’anno precedente. Oggi, nell’intera economia italiana, “sono presenti quasi 3 milioni di green jobs, che corrispondono al 13,3% dell’occupazione complessiva nazionale. Inoltre, nel 2014, le aziende italiane dell’industria e dei servizi hanno programmato di assumere circa 50.700 figure professionali “verdi” e altre 183.300 figure per le quali sono reputate indispensabili com­petenze green[19] che nel totale coprirebbero il 61% della domanda nazionale di lavoro. Per quanto riguarda l’Europa, le prospettive sono altrettanto promettenti: a detta della Commissione Europea di qui al 2020 si possono creare in Europa altri 20 milioni di posti di lavoro verdi.
Infine in ambito strettamente economico l’approccio green comporta una riduzione dei costi, almeno nel lungo/medio periodo: adottando sistemi di uso razionale dell’energia le imprese possono abbattere i costi e ottenere il duplice risultato di diminuire i propri consumi energetici e contribuire alla tutela dell’ambiente. Si possono poi ottenere incentivi (in Italia normalmente essi sono gestiti a livello regionale).
Per quanto riguarda la realtà delle piccole medie imprese (PMI) i risultati sono perlopiù positivi: secondo il rapporto GreenItaly 2014, il 25% delle PMI offre prodotti o servizi ecologici, mentre il
60% intende farlo nei prossimi 2 anni. Il vicepresidente della Commissione europea e responsabile per l’Industria e l’imprenditoria, Antonio Tajani, ha dichiarato: «Le PMI stanno raccogliendo la grande sfida posta dal passaggio ad un’economia più verde, dobbiamo tuttavia sostenere maggiormente i loro sforzi, in modo che possano trarre vantaggio dalle possibilità non sfruttate di ridurre i costi». Anche l’Eurobarometro[20] con le sue indagini telefoniche è giunto a questa conclusione e vede l’approccio green nelle PMI ogni anno in crescita. Su 500 imprese analizzate risulta che “il 42% delle PMI hanno assunto rispetto al 2012 almeno un dipendente che si occupasse della sostenibilità e delle nuove tecnologie in fatto di salvaguardia. I dipendenti assunti a tali scopi sono a tempo parziale o a tempo pieno, ma risultano essere il 5% in più rispetto all’anno precedente”[21]. Nell’ambito dello smaltimento dei rifiuti invece il 90% delle PMI ha tentato di migliorarsi; invece per quanto riguarda il mercato il 51% delle imprese si è data alla commercializzazione di prodotti sostenibili o alla attestazione della sostenibilità degli stessi (Eco-Label).
Un altro dato interessante riguarda la capacità di innovare: nuovamente l’Italia si pone al secondo posto in Europa, dopo la Germania, con ben 65.481 aziende che nell’ultimo triennio hanno innovato il proprio processo produttivo o il prodotto stesso. Si badi che più dell’80% di queste aziende ha meno di 50 addetti.
Le PMI europee e italiane si sono fatte guida di questa “rivoluzione verde”: “dalla fine del 2014, il 51% delle piccole e medie imprese italiane ha almeno un green job, più del Regno Unito (37%), della Francia (32%) e della Germania (29%). Puntare sulla sostenibilità e sulla qualità ambientale è una scelta strategica che guarda al futuro e che già oggi ci garantisce primati: 341.500 le aziende italiane (il 22% del totale, addirittura il 33% nella manifattura) che dal 2008 hanno investito nella green economy, guadagnando in termini di export (tra le manifatturiere, il 44% di quelle che investono green esportano stabilmente, contro il 24% delle altre) e di innovazione (30% contro 15%)”.[22]
Come gli stessi numeri lasciano intuire il modello economico-sociale green è un’occasione per l’Italia e per l’Europa. I 5 anni di Rapporti GreenItaly mostrano che l’Italia è già indirizzata verso questa realtà sia per rilanciare il Made in Italy, sia per adottare un nuovo modello imprenditoriale che punti alla qualità, all’innovazione, all’eco-efficienza e alla preservazione dell’ambiente. Le statistiche parlano di circa 350.000 aziende nel settore industriale e dei servizi, aventi almeno un dipendente, investitrici in prodotti e tecnologie green già da diversi anni o comunque intenzionate a farlo nell’anno corrente. In sostanza, da quando è iniziata la crisi più di un’azienda su cinque ha abbracciato la green economy per contrastare la forte competizione sui mercati globali e per rispondere al palese messaggio di un mondo in trasformazione. Vengono anche a crearsi sempre più frequentemente aggregazioni di imprese impegnate per l’ambiente -all’1 ottobre 2014 si contavano 258 reti green, pari al 15% di quelle totali.
Il settore green in Italia sta guadagnando anche l’interesse delle nuove imprese cd. start-up: solo nel primo semestre del 2014 si contano circa 33.500 start-up green, pari al 37,1% delle neo imprese nel 2014. Non solo le imprese sono sensibili al tema ambientale: secondo un sondaggio condotto dalla SWG il 78% dei consumatori italiani è disposto a spendere di più per prodotti e servizi eco-sostenibili, a prescindere dalla crisi.
Dunque come anche questi numeri dimostrano l’approccio eco-sostenibile, per lo meno nel lungo termine, è vantaggioso per tutti –imprenditori, investitori, cittadini- di oggi e di domani.
Infine, volendo esporre alcuni esempi di realtà sostenibili, ho scelto in particolare: Essen Green Capital 2017 premiata con l’European Green Capital Award per il suo innovativo sistema di gestione dell’acqua; il progetto di Boyan Slat[23], un ragazzo olandese, classe ’94, che ha ideato un sistema pulito ed economico per consentire la pulizia dei mari dalla plastica. Infine prenderò ad esempio una realtà più “a portata di tutti”, ossia un’invenzione, altrettanto geniale, conosciuta come “Flow™ Hive” che ha rivoluzionato la vita degli apicoltori (e delle api!).
L’European Green Capital Award è un titolo assegnato ogni anno ad una città europea per i propri risultati in materia di sostenibilità. La prima città premiata è stata Stoccolma, nel 2010. Seguono poi Amburgo nel 2011; Vitoria-Gasteiz nel 2012; Nantes nel 2013; Copenhagen nel 2014; Bristol nel 2015; Lubiana nel 2016 ed infine Essen nel 2017.[24] Le città ammesse devono avere una densità demografica che vada dai 100.000 ai 200.000 abitanti e vengono premiate per le buone pratiche ecologiche e sostenibili adottate. Sicuramente è innegabile che tutto questo comporti grandi investimenti, ma è altrettanto innegabile l’elevato ritorno degli stessi in termini di[25]:

  • profilo internazionale e visibilità nel mondo
  • domanda e offerta di lavoro (nuovi posti di lavoro e nuove professioni)
  • turismo e servizi
  • qualità e visibilità aziendale
  • movimenti economici e di mercato
  • risparmio
  • benessere dei cittadini

Il commissario europeo per l’Ambiente, affari marittimi e pesca, Karmenu Vella, durante la cerimonia di premiazione di quest’anno, svoltasi a Bristol, ha dichiarato: “Premiare la Città di Essen è un onore perché è un esempio concreto di come si può trasformare un territorio urbano fortemente industrializzato, soprattutto in passato, in uno più orientato alla Green Economy, dove l’ambiente, la natura e il paesaggio sono elementi da valorizzare in chiave economica e che rientrano negli obiettivi europei di sostenibilità e crescita a impatto zero”[26]. Essen è stata quindi in grado di reinventarsi a fronte di una solida tradizione industriale che ne ha segnato il passato. Essa è stata scelta dalla giuria non solo per il suo dimostrato impegno in materia di protezione e valorizzazione della biodiversità e degli ecosistemi, nonché di riduzione delle emissioni, ma anche -e soprattutto- per il suo impressionante sistema integrato di gestione dell’acqua, solido e innovativo. Esso è basato su una solida conoscenza dei problemi idrici e su un’apertura verso soluzioni innovative: è costituito di aree verdi multifunzionali, utilizzate per la gestione dell’acqua piovana; di un particolare sistema preventivo contro le inondazioni ed infine di un sistema di ravvenamento delle acque sotterranee conosciuto come “Groundwater recharge”.
Come già detto nella premessa Boyan Slat è un giovane olandese iscritto ad ingegneria aerospaziale che ha un sogno: ripulire il mare dalla plastica, o meglio eliminare la cd. Great Pacific Garbage Patch, ovvero una distesa di plastica, trasportata dalle correnti, tra le Hawaii e la California e che invade il nostro mare. Deciso a realizzarlo, Boyan, escogita un’idea che consiste in una barriera galleggiante lunga circa un chilometro che raccoglie i rifiuti spinti dalle correnti d’acqua e non danneggia l’ecosistema circostante. Il sistema è efficace e semplice: sfruttando le correnti e il fatto che la plastica staziona tendenzialmente in superficie o entro i tre metri di profondità la barriera non supera quelle dimensioni, evitando il più possibile di disturbare l’ecosistema marino. Le barriere sono simili a quelle utilizzate negli incidenti petroliferi marini atte a contenere il più possibile la diffusione di sostanze inquinanti; presentano però la peculiarità di far capo a stazioni compattatrici galleggianti alimentate a pannelli solari, anch’esse non sconvolgenti la vita dei pesci. L’altra notizia sensazionale è che questo metodo ha un costo 33 volte inferiore rispetto ai meccanismi tradizionali di pulizia. Seppur economico nell’applicazione, la realizzazione di questo sistema su larga scala, oltre a tutti i test di “ricerca e sviluppo” necessari a perfezionarlo, hanno un costo molto elevato. Così Boyan Slat ha dato inizio ad una campagna internazionale di crowdfunding. [27] Il successo è stato immediato, passato poco tempo il progetto ha ricevuto finanziamenti significativi potendo permettersi un team di altissimo livello per i test. Il gruppo di ricerca si accorda con l’amministrazione di Tsushima, un’isola giapponese, con l’approvazione dei suoi cittadini. Tsushima sarà il luogo in cui verrà eseguito il primo test del sistema di depurazione lungo 2000 metri. Posto più adatto era difficile trovarlo, in quanto Tsushima – proprio come la zona della Great Pacific Garbage Patch – subisce correnti oceaniche per cui nel suo territorio si accumula un gran quantitativo di plastica. I test sull’isola cominceranno nel 2016: se il progetto di Boyan funzionerà, saranno sviluppati in larga scala molti altri sistemi di pulizia degli oceani simili e progettate nuove barriere, più evolute che potrebbero realizzare il sogno di Boyan, ovvero quello di rimuovere circa il 50% della Great Pacific Garbage Patch nel corso di circa 10 anni.
Anche il progetto “Flow™ Hive[28] è stato realizzabile tramite il crowdfunding; in questo caso due australiani, Stuart e Cedar Anderson, padre e figlio, hanno inventato un nuovo metodo per praticare la mielicoltura. L’arnia di nuova generazione è costituita da un sistema di celle in plastica a forma di nido d’ape, in cui le api depositano il miele prima di sigillare le stesse con la cera. Vi è poi una leva che, quando tirata, divide la cera e trasforma le celle in canali zigzagati che consentono al miele di defluire. La gravità fa il resto, facendo colare il miele dai telai sul fondo: passa poi attraverso un tubo che, collegato ad un rubinetto, lo versa nel barattolo. Gli aspetti positivi di questa invenzione sono: 1) i materiali utilizzati, tutti green e a basso costo; 2) il metodo, che evita l’utilizzo di gas ed altre sostanze nocive per l’ambiente e per gli esseri viventi; 3) maggior sicurezza, guadagno ed economicità per l’apicoltore: spesso nella pratica di coltura del miele tradizionale molte api muoiono, causando un danno economico all’apicoltore; con “Flow™ Hive” non solo si evita tutto questo ma anche eventuali punture da parte delle api; 4) la quantità del raccolto: superiore rispetto al metodo tradizionale ed evitante moltissimi sprechi; 5) i prezzi d’acquisto del macchinario, che sono a buon mercato; 6) l’esistenza di modelli differenti e di diverse dimensione a seconda della svariate esigenze. Sicuramente vi sono ulteriori migliorie da apportare a questo sistema, tuttavia si dice che si tratti della più grande invenzione nel campo della mielicoltura dal 1852.
La scelta di questi tre esempi non è stata casuale, il mio scopo era infatti quello di evidenziare il “filo rosso” di questo elaborato, ovvero la multidimensionalità della sostenibilità. Nel primo esempio ho scelto una realtà grande con l’obiettivo di evidenziare il rapporto tra dimensione socio-economica e sostenibilità, dimostrando come l’agire sostenibile consenta l’accrescimento culturale, economico e sociale di una città. Nel secondo caso invece ho preso in esame il rapporto tra ambiente e sostenibilità. Lo scopo non era tanto quello di dare dimostrazione degli ovvi effetti positivi che la sostenibilità ha sull’ambiente e sulla salute di tutti gli esseri viventi, ma piuttosto sottolineare come la sostenibilità come sistema, oltre alla semplicità e alla economicità di fondo, ha tra le sue “potenzialità” anche quella di unire le persone di tutto il mondo, che entrano in contatto per ottenere un importante risultato per tutti gli esseri viventi attuali e futuri. Senza la fiducia e l’impegno (anche economico ovviamente) di tutti non sarebbe stato possibile prepararsi alla realizzazione di questo magnifico progetto. Infine il terzo esempio è stato da me scelto in quanto, pur trattandosi di una realtà “piccola” e “domestica”, essa è assolutamente rappresentativa di quello che è un sistema sostenibile: gli aspetti economici, socio-culturali ed ambientali convivono equilibratamente e danno maggiori vantaggi (sotto diversi punti di vista) rispetto che se considerati singolarmente.

 

[1] http://www.crati.it/por_calabria/dispense/Dispense/Cameriere%20sviluppo_sostenibile_e_agenda21_DISPENSA.pdf
[2] Quali rispondere alle esigenze di occupazione, cibo, energia, acqua e sanità ed igiene pubblica, la conservazione e il miglioramento dello stock di risorse naturali, la stabilizzazione dei livelli di occupazione e dell’equità sociale, il riorientamento della tecnologia e una migliore gestione del rischio, l’integrazione di obiettivi riguardanti l’ambiente e l’economia nei processi di decisione, la ristrutturazione delle relazioni economiche internazionali, il rafforzamento della cooperazione internazionale.
[3] Con COP si intendono le Conferenze internazionali annuali delle Parti dedicate al problema del cambiamento climatico; ad oggi se ne contano 20, la prossima, l’attesissima COP21, si terrà quest’anno dal 30 novembre all’11 dicembre a Parigi.
[4] Ovvero: Anidride carbonica (CO2), Metano (CH4), Protossido di azoto (N2O), Idrofluorocarburi (HFC), Perfluorocarburi (PFC) d Esafluoro di zolfo (SF6).
[5] Pierobon, A., (a cura di), “Nuovo manuale di diritto e gestione dell’ambiente”, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna, 2012
[6] http://www.isprambiente.gov.it/contentfiles/00001100/1194-ronchi-3.pdf
[7] https://en.wikipedia.org/wiki/United_Nations_Climate_Change_conference
[8] Baldo,G.L.; Marino,M.; Rossi,S; Analisi del ciclo di vita LCA : gli strumenti per la progettazione sostenibile di materiali, prodotti e processi: environmental life cycle thinking, life cycle assessment (Lca), life cycle design (Ecodesign), comunicazione ambientale, environmental product declaration (Epd®), climate declaration, ecolabel, carbon footprint, Milano, Edizioni Ambiente, 2008.
[9] http://www.isprambiente.gov.it
[10] http://www.arpa.veneto.it/servizi-ambientali/certificazioni-ambientali/gli-strumenti-per-la-certificazione/iso-14001-e-regolamento-emas
[11] Commissione Europea, Comunicazione n. 363 del 20 giugno 2011
[12] UNEP/ILO/IOE/ITUC, Green Jobs: Towards Decent Work in a Sustainable, Low-Carbon World, Settembre 2008
[13] http://www.cliclavoro.gov.it
[14] Rapporto GreenItaly 2014
[15] http://www.cliclavoro.gov.it/Progetti/Green_Jobs/Pagine/Gestione-del-territorio-e-turismo-sostenibile.aspx
[16] http://www.cliclavoro.gov.it/Progetti/Green_Jobs/Pagine/Smart-City.aspx
[17] Rapporto GreenItaly 2014
[18] Cass. Pen. 23/06/2004, n.28126.
[19] Rapporto GreenItaly2014
[20] I sondaggi Eurobarometro (EB) raccolgono informazioni dai cittadini europei su diverse tematiche. La Commissione utilizza i risultati dei sondaggi Eurobarometro sulla salute per migliorare le sue politiche in questo settore.
[21] http://www.comunicareilsociale.com/piccole-e-medie-imprese-la-scelta-e-green/
[22] Rapporto GreenItaly 2014 – http://www.cliclavoro.gov.it/Barometro-Del-Lavoro/Documents/Rapporto%20GreenItaly%202014.pdf
[23] http://www.boyanslat.com/
[24] http://europa.eu/rapid/press-release_IP-14-366_it.htm
[25] http://iljournal.today/blogeko/2015/06/20/la-citta-di-essen-eletta-european-green-capital-2017/
[26] http://www.key4biz.it/citta-verdi-a-essen-il-titolo-di-green-capital-deuropa/124091/
[27] http://www.theoceancleanup.com/
[28] http://www.honeyflow.com/

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