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Reati ambientali: rischi e sanzioni sul piano tributario

di Damiano Domenico Manzari

Categoria: Responsabilità ambientali

 

Il Legislatore nazionale a tutela dell’ambiente ha emanato, nel tempo, una serie di norme di sia carattere ordinario (Cod. Penale – L. 68/2015), che speciale (Testo Unico dell’Ambiente D. L.vo n. 152/2006) con le quali ha stabilito – in base alla gravità della condotta – specifiche ipotesi di reato e/o illecito amministrativo. Il bene giuridico “ambiente” gode di ulteriore protezione grazie all’inserimento dei reati ambientali nel novero[1] delle condotte penalmente rilevanti ai fini dell’applicazione dell’istituto giuridico della “responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di responsabilità giuridica, a norma dell’art. 11 della L. 29.09.2000, n. 300”, ai sensi del D. L.vo n. 231/2001.

 

Accanto a tali misure punitive, è possibile affiancare un’ulteriore istituto giuridico, che va a colpire i cennati comportamenti antigiuridici (segnatamente reati di natura non colposa) sul piano tributario, attraverso il c.d. regime fiscale della “indeducibilità dei costi e delle spese direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo” previsto dall’art. 14, comma 4-bis (razionalizzazione e soppressione di agevolazioni tributarie e recupero di imposte e di base imponibile) della L. 24.12.1993 n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica).

 

Secondo il dettato di tale norma: “””Nella determinazione dei redditi di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’articolo 424 del codice di procedura penale ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’articolo 157 del codice penale. Qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione ai sensi dell’articolo 530 del codice di procedura penale ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla causa di estinzione indicata nel periodo precedente, ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere ai sensi dell’articolo 529 del codice di procedura penale, compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi.([2])”””

 

La cennata norma fa parte dell’ordinamento tributario, è inserita all’interno di un provvedimento di natura fiscale (interventi di finanza pubblica) ed ha – tra le altre cose – quale scopo il recupero di imposte e di base imponibile. Il suo campo di applicazione sono le Imposte Dirette sui Redditi (II.DD.).

 

Essa è potenzialmente idonea a sanzionare le imprese che hanno operato in maniera non rispettosa delle norme vigenti, andando a ledere o minacciare più beni giuridici, tra cui anche quello dell’ambiente[3].

 

Pur essendo organicamente al di fuori del sistema sanzionatorio penale e amministrativo posto a tutela del bene giuridico “ambiente” è indubbia – per le ragioni che si andranno più avanti ad esporre – la funzione di deterrenza e di salvaguardia dell’ecosistema che la stessa può essere chiamata ad operare, sanzionando – sul piano eminentemente tributario – i comportamenti che offendono o comunque mettono a rischio il cennato bene.

 

La responsabilità in rassegna è altresì diversa ed ulteriore rispetto a quella stabilita dal D.Lgs. n. 231/2001, per i motivi che si andranno più avanti ad esporre.

Avvalendoci anche della Circolare n. 32/E del 03.08.2012 della Direzione Centrale Accertamento dell’Agenzia delle Entrate, con la quale l’Amministrazione Finanziaria ha fornito dei chiarimenti e suggerito agli operatori del settore le procedure più opportune per l’applicazione del cennato art. 14, comma 4-bis, vediamo di circoscrivere meglio l’operatività e gli scopi di tale norma.

 

Scopo della norma è quello di andare ad incidere nei meccanismi di determinazione di una delle seguenti categorie di reddito, espressamente indicate all’art. 6 del T.U.I.R.[4]:

a) redditi fondiari;

b) redditi di capitale;

c) redditi di lavoro dipendente;

d) redditi di lavoro autonomo;

e) redditi di impresa;

f) redditi diversi

per la cui produzione sono stati posti in essere dei reati dolosi.

 

Si pensi, ad esempio:

  1. ad un’impresa olearia che acquista olio di semi, lo adultera e lo immette sul mercato come “olio extravergine di oliva”;
  2. ad una società finanziaria che, senza autorizzazione, raccoglie il risparmio e svolge fraudolentemente attività di investimento;
  3. ad un’impresa che confeziona abbigliamento, utilizzando impropriamente e senza autorizzazione un segno distintivo (marchio) di opere dell’ingegno o di prodotti industriali;
  4. ad una società di smaltimento di rifiuti che tratta, tra le varie tipologie, anche rifiuti per i quali non era stata autorizzata al trattamento e quindi in maniera illegittima;
  5. ad un odontotecnico che esercita abusivamente la professione di odontoiatra in uno studio dentistico.

 

In conseguenza di attività illecite perpetrate nell’ambito di una delle citate categorie reddituali l’Erario, entro ben determinati limiti, deroga alle normali regole di calcolo contabile del reddito di esercizio, in senso peggiorativo per il soggetto passivo d’imposta che si è reso responsabile della commissione di reati non colposi.

 

Prima di verificare, in termini pratici, come si manifesta sulla capacità contributiva dei soggetti di cui all’art. 6 del T.U.I.R. il disvalore della loro condotta antigiuridica, esaminano gli elementi costitutivi della norma.

 

 

Elementi costitutivi della norma

 

Il regime fiscale di sfavore in rassegna opera nell’ambito delle II.DD. unicamente al verificarsi dei seguenti tre presupposti:

  1. il reato commesso sia un delitto non colposo;
  2. i costi e le spese siano relativi (in tutto o in parte) a beni o servizi utilizzati direttamente per il compimento della cennata tipologia di delitto, ovvero siano ad essa “strumentali”;
  3. sia stata esercitata l’azione penale da parte dell’Autorità Giudiziaria.

 

La condizione che fa da preambolo all’applicazione del regime tributario in rassegna è che deve essere stato commesso un reato doloso.

La scelta, condivisibile, del legislatore tributario è stata quella di punire – seppure sul piano fiscale – l’intenzionalità della condotta illecita, lasciando fuori dal campo di applicazione della norma i comportamenti antigiuridici caratterizzati invece da colpa.

Al pari dei reati colposi, si ritiene che debbano essere esclusi – dall’applicazione della norma de qua ed in ragione della terminologia adottata dal legislatore – anche i reati di natura contravvenzionale.

Il requisito della volontarietà del comportamento rende la norma in esame “trasversale”: ovvero idonea non solo a perseguire comportamenti illegittimi in materia ambientale, ma a colpire più tipologie di attività delittuose.

 

 

Inoltre, si ritiene che la norma sia applicabile anche ai delitti non colposi tentati, per due ordini di ragioni:

 

  1. il delitto tentato differisce da quello consumato, solo per la mancanza di evento;
  2. la rilevanza penale della condotta antigiuridica, sebbene con un livello di responsabilità più attenuato.

 

Il recupero dei costi e delle spese sostenuti e direttamente utilizzati per il compimento di delitti non colposi, non ricorre invece, secondo l’Agenzia delle Entrate, nelle ipotesi di comportamento omissivo.

 

Si pensi, ad esempio, al caso di un’impresa che nell’ambito dell’attività industriale commetta il reato di inquinamento ambientale, non provvedendo all’acquisto ed all’installazione di un depuratore. In tal caso, non essendo stati sostenuti costi diretti alla commissione del delitto non colposo, tutti i costi sostenuti per l’acquisto e l’utilizzo dei fattori produttivi dovranno ritenersi deducibili.

 

Circoscritta la species della violazione che determina l’indeducibilità dei costi, vediamo invece adesso su quali aspetti concreti della realtà fattuale ricade la disposizione di cui al citato art. 14, c. 4-bis. E’ indubbio che si debba trattare di “fattori produttivi”, propedeutici alla creazione di redditi rientranti in una delle varie categorie stabilite dal citato art. 6 del T.U.I.R.

 

Anche in questo caso, il legislatore è stato molto netto stabilendo che deve trattarsi di costi e/o spese riconducibili a beni o prestazioni di servizio utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo.

 

Al riguardo, l’Agenzia delle Entrate, nella citata Circolare 32/E, ha precisato che i costi non ammessi in deduzione sono soltanto quelli relativi ai beni e servizi direttamente utilizzati per il compimento del delitto non colposo, non essendo sufficiente, invece, l’astratta riferibilità al reato. In questo senso, l’indeducibilità colpisce i “costi di tutti i fattori produttivi che si pongano in un rapporto diretto con il delitto”.

 

La richiamata circolare ha, inoltre, ribadito che, ai fini del giudizio di indeducibilità, è necessario avere riguardo ai soli elementi negativi sostenuti in relazione alla fattispecie penalmente rilevante e non al complessivo ammontare degli elementi negativi di reddito.

 

A titolo esemplificativo, la cennata Circolare propone i seguenti casi:

  1. una società di smaltimento che smaltisca rifiuti per i quali non era autorizzata; in tale circostanza, il disconoscimento deve riguardare i soli costi direttamente legati al delitto ambientale, mentre tutti gli altri devono essere considerati pienamente deducibili;
  2. un’impresa autrice di una truffa perpetrata via posta; in tale caso, tutte le spese postali, relative al compimento del delitto non colposo, devono essere ritenute indeducibili;
  3. ugualmente indeducibili sono da considerarsi le spese per corrompere un pubblico ufficiale, al fine di aggiudicarsi un appalto pubblico, così come le commissioni corrisposte a società “cartiere”.

 

 

Nella richiamata Circolare, l’Agenzia delle Entrate ha inteso, altresì, precisare che l’indeducibilità dei costi opera quando sussiste il già sopra menzionato rapporto diretto tra i beni o servizi acquistati e il reato. Ciò, sia nel caso in cui detto rapporto sia integrato ab origine (fin dall’acquisizione del bene o del servizio), sia che lo stesso si manifesti successivamente, ovvero quando i fattori produttivi inizialmente acquistati per uno scopo lecito sono stati poi impiegati per il compimento del delitto ovvero utilizzati promiscuamente sia per il reato che per finalità legittime.

 

A tale riguardo, è stato, anche affermato che l’indeducibilità deve riguardare, oltre che i costi relativi ai beni e servizi direttamente utilizzati per la commissione del reato, anche la quota dei componenti negativi afferenti all’ordinaria attività d’impresa che abbiano avuto un rapporto di strumentalità con la commissione del reato, seppur sostenuti non esclusivamente per il compimento dello stessoquali, ad esempio, le quote di ammortamento, gli interessi passivi, gli accantonamenti, le sopravvenienze passive, le minusvalenze.

 

Da ciò discende che sono disconoscibili dall’Amministrazione Finanziaria pure i costi e le spese che, anche solo in parte, sono stati strumentali al compimento del delitto.

 

In sostanza, ai fini della contestazione nei confronti dell’impresa della indeducibilità del costo e che il fattore produttivo acquisito sia direttamente utilizzato, ancorchè in maniera non esclusiva (in tutto o in parte) per il compimento del reato.

 

In ragione di tale esplicita previsione normativa, a garanzia anche del responsabile della condotte delittuose, si procederà alla contestazione della indeducibilità dei costi connessi a beni o a prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di un delitto doloso, che abbiano con quest’ultimo un “rapporto di strumentalità”.

 

Nella individuazione dei costi indeducibili l’Amministratore Finanziaria dovrà fare riferimento, ad esempio:

a. alle risultanze delle indagini di Polizia Giudiziaria;

b. ai principi della contabilità aziendale

 

A garanzia della corretta ed inequivocabile applicazione della norma, nella stesura dell’atto impositivo gli operatori dovranno adeguatamente motivare la pretesa tributaria dell’Erario, ancorando la stessa al rapporto di strumentalità tra costi diretti (anche in misura parziale) al compimento di reati non colposo, da una parte, ed evento antigiuridico, dall’altra.

 

Dopo avere approfondito la natura e la portata del comma 4-bis dell’art. 14, vediamo adesso l’ultimo e fondamentale presupposto che la norma richiede per rendere pienamente operativo l’istituto giuridico della “indeducibilità dei costi-reato”: l’esercizio dell’azione penale.

 

A tal proposito il legislatore, allo scopo di far promuovere tale intervento sanzionatorio a ragion veduta (viste anche le conseguenze di natura patrimoniale che tale istituto potrebbe avere sull’azienda e, di riflesso, sull’imprenditore), ha posto un sbarramento all’operatività della norma, la quale potrà esplicarsi al verificarsi di una delle seguenti condizioni processuali:

  1. l’esercizio dell’azione penale da parte del Pubblico Ministero (limitatamente al delitto cui si riferiscono le spese effettuate o i costi sostenuti per l’acquisto di beni o prestazioni di servizi);
  2. qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 424 c.p.p.;
  3. sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 c.p.p. fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato, prevista dall’art. 157 (prescrizione del reato) c.p..

 

La scelta del legislatore di subordinare la possibilità per l’Amministrazione Finanziaria di contestare l’indeducibilità di costi e spese al preventivo esercizio dell’azione penale, risponde all’esigenza di garantire che l’attività di controllo fiscale abbia luogo sulla base di presupposti qualificati dal vaglio preventivo degli uffici giudiziari.

 

La seconda ipotesi prevista dal legislatore può verificarsi nel caso in cui il giudice dell’Udienza Preliminare, nell’assumere i provvedimenti conclusivi di cuio all’art. 424 c.p.p. ritenga di conferire al fatto contestato nell’imputazione formulata dal P.M., inizialmente non rilevante ai fini della inammissibilità in deduzione dei costi costi connessi, una qualificazione giuridica diversa e rilevante, invece, ai suddetti fini. In tali casi, come prevede la norma, è dal decreto che dispone il giudizio, che il giudice emette per il diverso delitto da questi ravvisato, che discende l’inammissibilità in deduzione dei costi e delle spese eventualmente connessi.

 

Con la terza ipotesi, il legislatore ha stabilito che l’indeducibilità di costi e spese permanga anche nell’ipotesi in cui il giudice abbia emesso una sentenza di “non luogo a procedere” ai sensi dell’art. 425 c.p.p., pronunciata per intervenuta prescrizione del reato ai sensi dell’art. 157 del c.p.p.

In particolare, il legislatore ha inteso cristallizzare la contestazione della indeducibilità dei costi anche nell’ipotesi di sentenza pronunciata dal giudice penale per intervenuta prescrizione del reato, in quanto la stessa non dichiara – nel merito – l’assoluzione dell’imputato in relazione al reato costituente il presupposto del recupero a tassazione dei connessi componenti negativi direttamente utilizzati per il compimento dell’attività delittuosa.

In questo caso, resta salva la facoltà del contribuente di rinunciare alla prescrizione ai sensi del cennato art. 157 c.p., al fine di conseguire una pronuncia di assoluzione nel merito ed ottenere, ove questa effettivamente intervenga, il rimborso di quanto versato all’Erario.

 

 

Il trattamento sanzionatorio

 

Esaminati i presupposti giuridici ed i limiti formali e procedurali imposti dal legislatore, vediamo adesso come si traduce, in termini pratici, il trattamento fiscale riservato alle categorie di reddito rientranti nell’art. 6 del T.U.I.R., per la cui realizzazione sono state altresì posti in essere atti e/o attività qualificabili come delitto non colposo.

Appare, ancora una volta, doveroso precisare che il regime giuridico della “indeducibilità dei costi e delle spese direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo” rileva solo ed unicamente ai fini delle Imposte Dirette (II.DD.) e non anche ai fini dell’Imposta sul Valore Aggiunto (I.V.A.)

 

Aiutandoci con alcuni esempi grafici (Vgs. figg. 1 e 2), vediamo quali conseguenze di natura economica e finanziaria comporta l’applicazione del regime in rassegna, sulla gestione contabile ed amministrativa di un’azienda.

 

figura-1-manzari

 

 

In fig. 1 viene rappresentato il funzionamento di un’impresa “sana” (scevra da comportamenti antigiuridici) la cui gestione è caratterizzata da spese di produzione (800) e ricavi di vendita (1000).

 

Semplificando i concetti e ipotizzando che la gestione sia oculata ed i risultati lusinghieri, la differenza tra queste due macro-aree (RICAVI – COSTI = 1000 – 800), al termine del periodo di esercizio e nell’ambito delle dichiarazione annuale dei redditi, si traduce in un valore positivo (200 profitto=reddito di impresa), sul quale l’Erario applica le imposte e procede al prelievo fiscale.

 

 

In fig. 2 è invece rappresentata un’impresa che opera in maniera illegale, ovvero che impiega una parte dei propri fattori produttivi (e quindi i costi di produzione) per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo. Per capire bene l’impatto della indeducibilità sulla gestione dell’impresa, l’ammontare dei costi (800) e dei ricavi (1000) è volutamente identico all’azienda sana.

 

A seguito dell’intervento repressivo di una Forza di Polizia, l’attività delittuosa viene interrotta, vengono posti in essere quegli accorgimenti necessari ad impedire che i reati dolosi sia portati a conseguenze ulteriori (perquisizioni, sequestri; ecc. ) e viene informata l’Autorità Giudiziaria, affinchè i responsabili vengano penalmente perseguiti.

A distanza di tempo, ultimate le investigazioni, nei confronti dei responsabili viene esercitata dal Pubblico Ministero l’azione penale.

 

Il verificarsi di tale conditio sine qua non legittima l’intervento dell’Amministrazione Finanziaria ai sensi dell’art. 14, comma 4-bis della L. 537/1993.

Questa, a seguito di apposita attività ispettiva ed avuta piena contezza dei fatti delittuosi posti all’attenzione dell’Autorità Giudiziaria:

 

  1. esamina la contabilità aziendale;
  2. individua e quantifica i costi legati alle attività illecite (rapporto di strumentalità), pari a 200;
  3. ne dichiara l’indeducibilità ai fini tributari e li espunge dalla contabilità;
  4. ridetermina il reddito di impresa (RICAVI – COSTI DEDUCIBILI = 1000 – 600 ), che risulterà maggiore (400) rispetto all’azienda sana e quindi anche il relativo prelievo fiscale il quale – a differenza dell’azienda sana ed a pari condizioni – risulterà più cospicuo, in virtù dei minori costi riconosciuti rispetto a quelli precedentemente indicati nella dichiarazione dei redditi.

 

Si pensi ad esempio, nell’ambito di una impresa di smaltimento di rifiuti regolarmente autorizzata, che tratta illecitamente anche rifiuti per i quali non sussiste alcune forma di autorizzazione. In quel caso di andranno, ad esempio, a recuperare in quota – parte ed a renderli indeducibili i seguenti costi, direttamente utilizzati per il compimento del reato in argomento:

 

  1. spese di trasporto;
  2. costi di trattamento e smaltimento (es: energia elettrica; imballaggi; ecc.)
  3. costi del personale;
  4. quote di ammortamento dei macchinari destinati al trattamento dei rifiuti.

 

 

Dall’applicazione del regime giuridico in argomento derivano innanzitutto, per l’impresa, una maggiore imposta dovuta (ai fini delle II.DD.) e degli interessi.

In particolare è applicabile la sanzione amministrativa di cui all’art. 1 (dichiarazione infedele), comma 2 del D.Lgs.vo nr. 471 del 18.12.1997, che prevede la pena pecuniaria dal 100% al 200% della maggiore imposta constatata.

L’indeducibilità dei costi e spese può rilevare anche ai fini di uno dei delitti dichiarativi previsti dal D.Lsg.vo del 10.03.2000 n. 74 inerente la “Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205”, ferma restando l’effettiva sussistenza degli elementi costitutivi delle diverse fattispecie incriminatrici in materia di reati tributari.

E’ perciò possibile che, al riguardo ed in determinate condizioni, possano essere contestati nei confronti dell’impresa che ha commesso dei reati di natura ambientale, ulteriori fattispecie penali tributarie di cui agli artt. 2 (Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti) e 3 (Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici) del citato decreto legislativo.

Entrambe le norme prevedono la sanzione della reclusione da un anno e sei mesi fino ad un massimo di sei anni.Queste ulteriori ipotesi sarà bene affrontarle, data la complessità del tema, in un altro e successivo contributo.

 

Comparazione con la responsabilità amministrativa degli enti

 

Posto che il tema meriterebbe maggiore spazio, vediamo brevemente come e perché coesistono nel nostro sistema due responsabilità amministrative sulle imprese, nella cui gestione sono stati commessi dei reati.

 

Esaminiamo innanzitutto i soggetti destinatari delle due normative speciali. Se, da una parte, l’oggetto del D.Lgs.vo 231 sono le persone giuridiche, le società e delle associazioni anche prive di responsabilità giuridica, dall’altra la platea di potenziali soggetti, avuto riguardo alle diverse categorie di redditi ex art. 6 del T.U.I.R., è decisamente più ampia.

Anche sul piano della responsabilità, ci sono delle differenze: con il D.Lgs.vo 231 si va a colpire il reato commesso da una delle figure di riferimento della persona giuridica o dell’ente individuate dall’art. 5 del decreto. L’art. 14, comma 4-bis non richiede che a commettere i delitti non colposi sia una figura apicale dell’impresa o dell’ente o che rivesta in uno dei due precedenti soggetti giuridici delle particolari responsabilità.

Anche i reati-presupposto per l’applicazione dei due distinti istituti sono differenti: quelli del D.Lgs.vo 231 sono rigorosamente ed espressamente codificati nel Capo I – Sezione III (Responsabilità amministrativa da reato), dall’art. 24 all’art. 26 del decreto.. Nell’art. 14, comma 4-bis è sufficiente che si tratti di reato non colposo.

 

La ratio dei due istituti. Con il D.L.vo 231, partendo dal postulato che “societas deliquere non potest” si mira a sanzionare la società o l’ente che ha tratto vantaggio dalla commissione di uno o più illeciti da parte del rappresentante legale o altra figura apicale (amministratore delegato o dirigenet): si pensi ad esempio ad un manager che, per ottenere l’aggiudicazione di un appalto, corrompe un funzionario pubblico. Invece, attraverso l’indeducibilità dei costi il legislatore persegue l’azienda sul piano tributario, ovvero togliendo dalla contabilità fiscale i costi legati al comportamento illecito, aumentando di conseguenza i ricavi della produzione e, quindi, la base imponibile sulla quale applicare le Imposte Dirette.

Ne deriva, infine, che non tutti i reati puniti dal punto di vista della responsabilità amministrativa, lo sono anche dal punto di vista della responsabilità tributaria e viceversa.

 

Ex pluribus, l’esistenza del sistema sanzionatorio tributario in parola (ulteriore rispetto a quello penale e quello della responsabilità amministrativa), è stato anche oggetto – nel recente passato – di una questione di legittimità davanti alla Corte Costituzionale, sollevata dalla Commissione Tributaria di Terni in riferimento agli artt. 3, 27 2 c. e 53 della Cost.

 

Il contenzioso con l’Amministrazione Finanziaria aveva ad oggetto proprio un caso di recupero a tassazione di costi considerati “indeducibili” operato dall’Agenzia delle Entrate (in relazione all’IRPEG, all’IRAP ed all’IVA per l’anno 2003 ed in relazione all’IRAP ed all’IVA per l’anno 2004) nei confronti di una società di servizi ambientali in quanto tali costi erano legati ai reati di falsità ideologica e materiale in atti pubblici e di concorso in abuso d’ufficio, nonché per reati ambientali nell’ambito dell’attività di trasferimento e trattamento di rifiuti provenienti dalla Campania.

In quella circostanza, la Corte (relatore Prof. Franco Gallo[5]) ha ritenuto le questioni manifestamente inammissibili per inadeguata motivazione sulla rilevanza degli argomenti posti a base del ricorso.

 

Si può concludere che sebbene la norma in argomento abbia quale scopo principale quello di rendere gravosa – in determinate circostanze e dal punto di vista tributario – la commissione di reati dolosi, la stessa è anche in grado di rivestire un fondamentale e non meno importante ruolo di deterrente (per gli alti costi aziendali) verso svariate tipologie di reato non colposo, tra cui anche quelli di natura ambientale.

In argomento, si segnala il Corso di formazione “Responsabilità e sanzioni ambientali – Amministrative, Penali, Tributarie, che si terrà a Milano, il 22 marzo 2019.

Info e approfondimenti: formazione@tuttoambiente.it0523.315305

 

Piacenza, 25.01.2019

 

 

[1] Si richiama in proposito, il contenuto dell’art. 25-undecies (reati ambientali) del citato Decreto Legislativo.

 

[2] Comma inserito dall’art. 2, comma 8, L. 27 dicembre 2002, n. 289, a decorrere dal 1° gennaio 2003 e, successivamente, così sostituito dall’art. 8, comma 1, D.L. 2 marzo 2012, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla L. 26 aprile 2012, n. 44; per la disciplina transitoria, vedi l’art. 8, comma 3, del medesimo D.L. 16/2012;

 

[3] Sebbene non sia stata codificata una nozione giuridica univoca del bene “ambiente”, è possibile ricavarla dalla sentenza nr. 387/2007 della Corte Costituzionale, la quale ha definito ambiente “un bene giuridico che, in senso unitario, coesiste con altri beni giuridici che hanno ad oggetto componenti del bene “ambiente”. Ad ogni buon conto, l’ambiente è tutelato dall’art. 9 Cost. il quale testualmente recita: “La Repubblica…..tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione, principalmente al fine di proteggere la salute della persona (art. 32 Cost.).

 

[4] Acronimo di Testo Unico delle Imposte sui Redditi, approvato con D.P.R. 917 del 22.12.19876.

 

[5] Già Ministro delle Finanze nel Governo Ciampi (4 maggio 1993–10 maggio 1994).

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