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Il suolo, i riporti e il campo di applicazione dell’art. 3, D.L. 2/12
di Stefano Leoni
Categoria: Rifiuti
Negli ultimi anni, sulla scia dell’annosa questione riguardante il tema del rapporto tra le terre e rocce da scavo e i rifiuti, il legislatore italiano è intervenuto ripetutamente sul tema dei cosiddetti riporti.
L’origine di questi interventi sembra derivare da un’iniziativa della Provincia di Milano[i], che con l’ordine di servizio interno del 29 novembre 2010 aveva diramato il seguente indirizzo: ”in attesa che si pervenga a una loro classificazione uniforme da parte degli Enti preposti ai controlli, (i riporti) vanno considerati e trattati come rifiuti”.
La reazione, che ne è seguita, ha portato alla produzione di nuove norme, che purtroppo sembrano aver generato maggiore confusione fino a condurre all’emanazione di provvedimenti di non facile comprensibilità.
In particolare, da queste norme sono derivate letture interpretative che hanno portato alcune amministrazioni a ritenere che alla disciplina dei rifiuti e a quella sulla bonifica dei siti contaminati si sia aggiunta un’ulteriore disciplina attinente esclusivamente alla gestione ai riporti[ii]. Secondo questa tesi, anche laddove sia stata condotta una caratterizzazione ai sensi della disciplina sui siti contaminati, in caso di accertata presenza di riporti nel suolo, dovrebbe essere avviata un’ulteriore caratterizzazione degli stessi per verificare o meno se essi debbono essere sottoposti a bonifica.
Appare evidente l’illogicità di tale interpretazione. Da un lato non garantisce un più alto livello di tutela in quanto i valori da rispettare – nel caso in cui i riporti risultino contaminati – saranno al termine del procedimento gli stessi che derivano dall’applicazione della disciplina sulle bonifiche, dall’altro dilata i tempi del procedimento di bonifica aumentando così il periodo di pericolosità. Infine incrementa ulteriormente i costi delle operazioni di bonifica, ciò significa che se il soggetto obbligato al risanamento non goda di una floridità economica, potrà effettuare interventi di minor impegno e quindi di minore qualità ambientale.
Questa lettura sembra abbia trovato un’eco in qualche pronuncia giurisdizionale[iii], ma non risulta allineata con il parere rilasciato dal Ministero dell’ambiente ad ISPRA.[iv]
Per la piena comprensione della problematica è opportuno ricostruire il quadro normativo.
La novella introdotta dall’art.3 del d.l. 2/12, come modificato dalla legge di conversione n. 28/12 si è proposta come disposizione finalizzata a fornire un’Interpretazione autentica dell’articolo 185 del decreto legislativo n.152 del 2006, disposizioni in materia di matrici materiali di riporto e ulteriori disposizioni in materia di rifiuti. Il citato art. 185 a sua volta dispone in merito alle Esclusioni dall’ambito di applicazione della parte IV del d. lgs. 152/06 (disciplina dei rifiuti e della bonifica dei siti contaminati). Successivamente l’art. 3 del d.l. 2/12 è stato emendato dal comma 3, dell’art. 41 del d.l. 69/13, convertito con modificazioni dalla l. 98/13.
A seguito di queste riscritture, il testo dell’art. 3 del d.l. 2/12 oggi appare come segue:
(Interpretazione autentica dell’articolo 185 del decreto legislativo n.152 del 2006, disposizioni in materia di matrici materiali di riporto e ulteriori disposizioni in materia di rifiuti)
Ferma restando la disciplina in materia di bonifica dei suoli contaminati, i riferimenti al “suolo” contenuti all’articolo 185, commi 1, lettere b) e c), e 4, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, si interpretano come riferiti anche alle matrici materiali di riporto di cui all’allegato 2 alla parte IV del medesimo decreto legislativo, costituite da una miscela eterogenea di materiale di origine antropica, quali residui e scarti di produzione e di consumo, e di terreno, che compone un orizzonte stratigrafico specifico rispetto alle caratteristiche geologiche e stratigrafiche naturali del terreno in un determinato sito , e utilizzate per la realizzazione di riempimenti, di rilevati e di reinterri.
Fatti salvi gli accordi di programma per la bonifica sottoscritti prima della data di entrata in vigore della presente disposizione che rispettano le norme in materia di bonifica vigenti al tempo della sottoscrizione, Ai fini dell’applicazione dell’articolo 185, comma 1, lettere b) e c), del decreto legislativo n. 152 del 2006, le matrici materiali di riporto devono essere sottoposte a test di cessione effettuato sui materiali granulari ai sensi dell’articolo 9 del decreto del Ministro dell’ambiente 5 febbraio 1998, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale 16 aprile 1998, n. 88, ai fini delle metodiche da utilizzare per escludere rischi di contaminazione delle acque sotterranee e, ove conformi ai limiti del test di cessione, devono rispettare quanto previsto dalla legislazione vigente in materia di bonifica dei siti contaminati.
Le matrici materiali di riporto che non siano risultate conformi ai limiti del test di cessione sono fonti di contaminazione e come tali devono essere rimosse o devono essere rese conformi ai limiti del test di cessione tramite operazioni di trattamento che rimuovano i contaminanti o devono essere sottoposte a messa in sicurezza permanente utilizzando le migliori tecniche disponibili e a costi sostenibili che consentano di utilizzare l’area secondo la destinazione urbanistica senza rischi per la salute.
3-bis. Gli oneri derivanti dai commi 2 e 3 sono posti integralmente a carico dei soggetti richiedenti le verifiche ivi previste.
Ciò premesso passiamo alla valutazione dell’impatto della disposizione.
Per quanto riguarda le esclusioni disposte già dall’art. 185 del d lgs. 152/06 la novella non comporta particolari stravolgimenti, in quanto permangono al di fuori della disciplina della parte IV:
b) il terreno (in situ), inclusi il suolo (ndr tra cui i riporti) contaminato non scavato e gli edifici collegati permanentemente al terreno, fermo restando quanto previsto dagli artt. 239 e ss. relativamente alla bonifica di siti contaminati;
c) il suolo (ndr inclusi i riporti) non contaminato e altro materiale allo stato naturale escavato nel corso di attività di costruzione, ove sia certo che esso verrà riutilizzato a fini di costruzione allo stato naturale e nello stesso sito in cui è stato escavato.
In questa prospettiva, quindi, la disciplina “stratificatasi” tra il 2012 e il 2103 si allinea con la finalità interpretativa dell’art. 3 del d.l. 2/12.
L’allineamento diviene più complesso quando si passa all’inquadramento della parte di questo articolo che descrive le modalità per l’accertamento della pericolosità o meno della matrice materiali di riporto. Infatti, da un lato il comma 2 assume che questa matrice rientra nel campo di applicazione nell’allegato all’allegato 2 alla parte IV, del d. lgs. 152/06, che definisce le modalità di esecuzione del piano di caratterizzazione dei siti potenzialmente contaminati. Dall’altro, lo stesso comma aggiunge che occorre effettuare un test di cessione ai sensi dell’art. 9, del d.m. 5.2.98, ossia il decreto che disciplina le modalità per accedere alle procedure semplificate per l’autorizzazione a recupero di rifiuti non pericolosi.
Seguendo la tesi qui contestata l’art. 3, del d.l. 2/12 in tema di matrici materiali di riporto prevale sull’art. 242 del d. lgs 125/06, che descrive il procedimento amministrativo da seguire per la bonifica dei siti contaminati[v]. Tuttavia, non permette di spiegare per quale motivo lo stesso articolo abbia imposto che la matrice materiali di riporto debba essere soggetta alle modalità di esecuzione del piano di caratterizzazione imposto dallo stesso art. 242.
Infatti, anche volendo ammettere quanto sostenuto dal TAR Lombardia – “Ciò significa che per le matrici materiali di riporto vige un regime particolare: quando presentano caratteristiche non conformi ai test di cessione esse vengono classificate come fonti di contaminazione e come tali devono essere trattate, secondo le modalità specificate nell’art. 3, comma 3, del d.l. 2/12”…”la qualificazione dei materiali di riporto come fonti di contaminazione prevale sulla qualificazione di matrici ambientali e impone di intervenire su tali materiali con le specifiche modalità previste dal citato art. 3, comma 3 (norma speciale), anziché con le procedure ex artt. 242 ss. Del Codice dell’ambiente” – della prevalenza della disciplina contenuta nell’art. 3, una volta accertato che le matrici materiali di riporto sono fonti di contaminazione e non sono rimuovibili occorrerà comunque eseguire la caratterizzazione delle matrici (compresi i materiali riporto) presenti nel sito potenzialmente contaminato e sulla base di ciò definire le Concentrazioni Soglia di Rischio e, quindi, definire se il sito debba o meno essere sottoposto ad operazioni di bonifica.
Ciò significa che, in realtà, non esiste una prevalenza del primo articolo sulla disciplina sulla bonifica dei siti contaminati, quanto una confluenza del primo nella seconda.
Tale tesi, inoltre, non si allinea con quanto disposto al comma 3.bis – Gli oneri derivanti dai commi 2 e 3 sono posti integralmente a carico dei soggetti richiedenti le verifiche ivi previste -. Sembrerebbe, infatti, che il procedimento muova su iniziativa della parte interessata e non sia attivabile d’imperio. In altri termini non sembra sussistere un vero e proprio regime di doverosità. E sembra ben strano che il legislatore abbia inteso introdurre una disciplina finalizzata alla rimozione di potenziali fonti di contaminazioni esclusivamente su istanza dei privati, alternativa ad altre basate su regimi di responsabilità.
Infatti, nel settore dei rifiuti viene definita la responsabilità del produttore dei rifiuti e in quello delle bonifiche dei siti contaminati quella del responsabile della contaminazione. Rimane, invece, imponderabile il perimetro della responsabilità presente nella presunta disciplina riguardante la matrice materiali di riporto. Un simile difetto non può che portare, dunque, ad una limitazione del campo di applicazione dell’art. 3.
Campo di applicazione che la tesi interpretativa qui contestata estende in via teorica su gran parte del territorio nazionale. E’ noto infatti che tutte le nostre città sorgono su stratificazioni di origine antropica che possono raggiungere i diversi metri di profondità. Assumere che l’entrata in vigore dell’art. 3, del d.l. 2/12 costituisce una disciplina speciale che si attiva con la semplice conoscenza della presenza di stratigrafie di riporti nel sottosuolo avrebbe un impatto non misurabile sia in termini economiche che in termini ambientali. Basti pensare a tutte le nostre reti infrastrutturali viarie, ferroviarie, portuali e aeroportuali, fognature, depuratori, condutture, dispacciamento dell’energia, …. cresciute interamente su riporti.
Queste considerazioni fanno riflettere sulla fondatezza di questa tesi e portano a domandarci quale fosse l’effettiva volontà del legislatore.
Credo che la risposta sia rintracciabile nel titolo dello stesso art. 3, del d.l. 2/12 ossia Interpretazione autentica dell’articolo 185 del decreto legislativo n.152 del 2006, disposizioni in materia di matrici materiali di riporto e ulteriori disposizioni in materia di rifiuti. Art. 185, che a sua volta definisce il campo di applicazione della parte IV del d. lgs. n. 152/06, ossia la disciplina sui rifiuti e la disciplina sulle bonifiche dei siti contaminati.
Dunque, non ci troviamo di fronte ad una terza disciplina, alternativa a quella dei rifiuti e a quella delle bonifiche, ma semplicemente ad una disposizione che definisce le modalità per determinare se si rientri nell’una, nell’altra o in nessuna delle due. Questa lettura emerge anche dal parere rilasciato dal Ministero dell’ambiente nel 2014.
Essa si attiva nell’ipotesi in cui, effettuato uno scavo in un’area non classificata come potenzialmente contaminata, si riscontri la presenza di una matrice materiali di riporto. Questo materiale dovrà essere sottoposto a test di cessione per comprendere se possa costituire o meno una fonte di contaminazione. In caso negativo il materiale escavato potrà essere riutilizzato nel rispetto della disciplina sulle rocce e terre da scavo. In caso positivo la parte escavata – quale bene mobile di cui ci si può disfare – dovrà essere gestita come rifiuto.
Se, invece, costituisce un bene immobile sarà considerata parte integrante e costitutiva del suolo e, in quanto matrice contaminata, sottoposta al procedimento descritto agli artt. 242 ss. del d. lgs. 152/06.
Questa lettura non solo non crea attriti con le discipline sui rifiuti e sulle bonifiche, ma giustifica la prescrizione di accollare i costi delle verifiche in capo al soggetto che opera gli scavi, che si presenta come richiedente un attestato in merito alla qualifica del materiale estratto. Successivamente, questi ne risponderà come produttore del rifiuto ai sensi della disciplina di riferimento, o come responsabile della contaminazione se il suo comportamento è stato causa della fonte di contaminazione.
[ii] Vd. in proposito il Protocollo operativo adottato dall’ARPA FVG per i riporti nel SIN di Trieste.
[iii] Tar Toscana, Sez. II, sent. 558/14 e Tar Lombardia (MI), Sez. III, sent. 2638/15.
[iv] Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, Direzione Generale per la Tutela del Territorio e delle Risorse Idriche, prot. 13338/TRI del 14 maggio 2014.
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Il suolo, i riporti e il campo di applicazione dell’art. 3, D.L. 2/12
di Stefano Leoni
Negli ultimi anni, sulla scia dell’annosa questione riguardante il tema del rapporto tra le terre e rocce da scavo e i rifiuti, il legislatore italiano è intervenuto ripetutamente sul tema dei cosiddetti riporti.
L’origine di questi interventi sembra derivare da un’iniziativa della Provincia di Milano[i], che con l’ordine di servizio interno del 29 novembre 2010 aveva diramato il seguente indirizzo: ”in attesa che si pervenga a una loro classificazione uniforme da parte degli Enti preposti ai controlli, (i riporti) vanno considerati e trattati come rifiuti”.
La reazione, che ne è seguita, ha portato alla produzione di nuove norme, che purtroppo sembrano aver generato maggiore confusione fino a condurre all’emanazione di provvedimenti di non facile comprensibilità.
In particolare, da queste norme sono derivate letture interpretative che hanno portato alcune amministrazioni a ritenere che alla disciplina dei rifiuti e a quella sulla bonifica dei siti contaminati si sia aggiunta un’ulteriore disciplina attinente esclusivamente alla gestione ai riporti[ii]. Secondo questa tesi, anche laddove sia stata condotta una caratterizzazione ai sensi della disciplina sui siti contaminati, in caso di accertata presenza di riporti nel suolo, dovrebbe essere avviata un’ulteriore caratterizzazione degli stessi per verificare o meno se essi debbono essere sottoposti a bonifica.
Appare evidente l’illogicità di tale interpretazione. Da un lato non garantisce un più alto livello di tutela in quanto i valori da rispettare – nel caso in cui i riporti risultino contaminati – saranno al termine del procedimento gli stessi che derivano dall’applicazione della disciplina sulle bonifiche, dall’altro dilata i tempi del procedimento di bonifica aumentando così il periodo di pericolosità. Infine incrementa ulteriormente i costi delle operazioni di bonifica, ciò significa che se il soggetto obbligato al risanamento non goda di una floridità economica, potrà effettuare interventi di minor impegno e quindi di minore qualità ambientale.
Questa lettura sembra abbia trovato un’eco in qualche pronuncia giurisdizionale[iii], ma non risulta allineata con il parere rilasciato dal Ministero dell’ambiente ad ISPRA.[iv]
Per la piena comprensione della problematica è opportuno ricostruire il quadro normativo.
La novella introdotta dall’art.3 del d.l. 2/12, come modificato dalla legge di conversione n. 28/12 si è proposta come disposizione finalizzata a fornire un’Interpretazione autentica dell’articolo 185 del decreto legislativo n.152 del 2006, disposizioni in materia di matrici materiali di riporto e ulteriori disposizioni in materia di rifiuti. Il citato art. 185 a sua volta dispone in merito alle Esclusioni dall’ambito di applicazione della parte IV del d. lgs. 152/06 (disciplina dei rifiuti e della bonifica dei siti contaminati). Successivamente l’art. 3 del d.l. 2/12 è stato emendato dal comma 3, dell’art. 41 del d.l. 69/13, convertito con modificazioni dalla l. 98/13.
A seguito di queste riscritture, il testo dell’art. 3 del d.l. 2/12 oggi appare come segue:
(Interpretazione autentica dell’articolo 185 del decreto legislativo n.152 del 2006, disposizioni in materia di matrici materiali di riporto e ulteriori disposizioni in materia di rifiuti)
3-bis. Gli oneri derivanti dai commi 2 e 3 sono posti integralmente a carico dei soggetti richiedenti le verifiche ivi previste.
Ciò premesso passiamo alla valutazione dell’impatto della disposizione.
Per quanto riguarda le esclusioni disposte già dall’art. 185 del d lgs. 152/06 la novella non comporta particolari stravolgimenti, in quanto permangono al di fuori della disciplina della parte IV:
In questa prospettiva, quindi, la disciplina “stratificatasi” tra il 2012 e il 2103 si allinea con la finalità interpretativa dell’art. 3 del d.l. 2/12.
L’allineamento diviene più complesso quando si passa all’inquadramento della parte di questo articolo che descrive le modalità per l’accertamento della pericolosità o meno della matrice materiali di riporto. Infatti, da un lato il comma 2 assume che questa matrice rientra nel campo di applicazione nell’allegato all’allegato 2 alla parte IV, del d. lgs. 152/06, che definisce le modalità di esecuzione del piano di caratterizzazione dei siti potenzialmente contaminati. Dall’altro, lo stesso comma aggiunge che occorre effettuare un test di cessione ai sensi dell’art. 9, del d.m. 5.2.98, ossia il decreto che disciplina le modalità per accedere alle procedure semplificate per l’autorizzazione a recupero di rifiuti non pericolosi.
Seguendo la tesi qui contestata l’art. 3, del d.l. 2/12 in tema di matrici materiali di riporto prevale sull’art. 242 del d. lgs 125/06, che descrive il procedimento amministrativo da seguire per la bonifica dei siti contaminati[v]. Tuttavia, non permette di spiegare per quale motivo lo stesso articolo abbia imposto che la matrice materiali di riporto debba essere soggetta alle modalità di esecuzione del piano di caratterizzazione imposto dallo stesso art. 242.
Infatti, anche volendo ammettere quanto sostenuto dal TAR Lombardia – “Ciò significa che per le matrici materiali di riporto vige un regime particolare: quando presentano caratteristiche non conformi ai test di cessione esse vengono classificate come fonti di contaminazione e come tali devono essere trattate, secondo le modalità specificate nell’art. 3, comma 3, del d.l. 2/12”…”la qualificazione dei materiali di riporto come fonti di contaminazione prevale sulla qualificazione di matrici ambientali e impone di intervenire su tali materiali con le specifiche modalità previste dal citato art. 3, comma 3 (norma speciale), anziché con le procedure ex artt. 242 ss. Del Codice dell’ambiente” – della prevalenza della disciplina contenuta nell’art. 3, una volta accertato che le matrici materiali di riporto sono fonti di contaminazione e non sono rimuovibili occorrerà comunque eseguire la caratterizzazione delle matrici (compresi i materiali riporto) presenti nel sito potenzialmente contaminato e sulla base di ciò definire le Concentrazioni Soglia di Rischio e, quindi, definire se il sito debba o meno essere sottoposto ad operazioni di bonifica.
Ciò significa che, in realtà, non esiste una prevalenza del primo articolo sulla disciplina sulla bonifica dei siti contaminati, quanto una confluenza del primo nella seconda.
Tale tesi, inoltre, non si allinea con quanto disposto al comma 3.bis – Gli oneri derivanti dai commi 2 e 3 sono posti integralmente a carico dei soggetti richiedenti le verifiche ivi previste -. Sembrerebbe, infatti, che il procedimento muova su iniziativa della parte interessata e non sia attivabile d’imperio. In altri termini non sembra sussistere un vero e proprio regime di doverosità. E sembra ben strano che il legislatore abbia inteso introdurre una disciplina finalizzata alla rimozione di potenziali fonti di contaminazioni esclusivamente su istanza dei privati, alternativa ad altre basate su regimi di responsabilità.
Infatti, nel settore dei rifiuti viene definita la responsabilità del produttore dei rifiuti e in quello delle bonifiche dei siti contaminati quella del responsabile della contaminazione. Rimane, invece, imponderabile il perimetro della responsabilità presente nella presunta disciplina riguardante la matrice materiali di riporto. Un simile difetto non può che portare, dunque, ad una limitazione del campo di applicazione dell’art. 3.
Campo di applicazione che la tesi interpretativa qui contestata estende in via teorica su gran parte del territorio nazionale. E’ noto infatti che tutte le nostre città sorgono su stratificazioni di origine antropica che possono raggiungere i diversi metri di profondità. Assumere che l’entrata in vigore dell’art. 3, del d.l. 2/12 costituisce una disciplina speciale che si attiva con la semplice conoscenza della presenza di stratigrafie di riporti nel sottosuolo avrebbe un impatto non misurabile sia in termini economiche che in termini ambientali. Basti pensare a tutte le nostre reti infrastrutturali viarie, ferroviarie, portuali e aeroportuali, fognature, depuratori, condutture, dispacciamento dell’energia, …. cresciute interamente su riporti.
Queste considerazioni fanno riflettere sulla fondatezza di questa tesi e portano a domandarci quale fosse l’effettiva volontà del legislatore.
Credo che la risposta sia rintracciabile nel titolo dello stesso art. 3, del d.l. 2/12 ossia Interpretazione autentica dell’articolo 185 del decreto legislativo n.152 del 2006, disposizioni in materia di matrici materiali di riporto e ulteriori disposizioni in materia di rifiuti. Art. 185, che a sua volta definisce il campo di applicazione della parte IV del d. lgs. n. 152/06, ossia la disciplina sui rifiuti e la disciplina sulle bonifiche dei siti contaminati.
Dunque, non ci troviamo di fronte ad una terza disciplina, alternativa a quella dei rifiuti e a quella delle bonifiche, ma semplicemente ad una disposizione che definisce le modalità per determinare se si rientri nell’una, nell’altra o in nessuna delle due. Questa lettura emerge anche dal parere rilasciato dal Ministero dell’ambiente nel 2014.
Essa si attiva nell’ipotesi in cui, effettuato uno scavo in un’area non classificata come potenzialmente contaminata, si riscontri la presenza di una matrice materiali di riporto. Questo materiale dovrà essere sottoposto a test di cessione per comprendere se possa costituire o meno una fonte di contaminazione. In caso negativo il materiale escavato potrà essere riutilizzato nel rispetto della disciplina sulle rocce e terre da scavo. In caso positivo la parte escavata – quale bene mobile di cui ci si può disfare – dovrà essere gestita come rifiuto.
Se, invece, costituisce un bene immobile sarà considerata parte integrante e costitutiva del suolo e, in quanto matrice contaminata, sottoposta al procedimento descritto agli artt. 242 ss. del d. lgs. 152/06.
Questa lettura non solo non crea attriti con le discipline sui rifiuti e sulle bonifiche, ma giustifica la prescrizione di accollare i costi delle verifiche in capo al soggetto che opera gli scavi, che si presenta come richiedente un attestato in merito alla qualifica del materiale estratto. Successivamente, questi ne risponderà come produttore del rifiuto ai sensi della disciplina di riferimento, o come responsabile della contaminazione se il suo comportamento è stato causa della fonte di contaminazione.
Da ciò ne consegue che, nel caso un territorio sia già interessato da un procedimento di bonifica, non occorre più accertare ai sensi dell’art. 3 la matrice materiali di riporto costituisca o meno fonte di contaminazione, in quanto a questa determinazione si dovrà giungere attraverso il procedimento prescritto per la bonifica dei siti contaminati.

[i] https://www.puntosicuro.it/ambiente-C-81/bonifica-siti-contaminati-C-123/problematiche-di-bonifica-dei-materiali-di-riporto-AR-15525/.
http://www.ambientediritto.it/dottrina/Dottrina_2011/riflessioni_terre_da_riporto_decesaris.htm.
[ii] Vd. in proposito il Protocollo operativo adottato dall’ARPA FVG per i riporti nel SIN di Trieste.
[iii] Tar Toscana, Sez. II, sent. 558/14 e Tar Lombardia (MI), Sez. III, sent. 2638/15.
[iv] Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, Direzione Generale per la Tutela del Territorio e delle Risorse Idriche, prot. 13338/TRI del 14 maggio 2014.
[v] Tar Lombardia (MI), Sez. III, sent. 2638/15.
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