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Stefano Maglia

Terre e rocce da scavo nello stesso sito: ma cosa si intende per “sito”?

di Stefano Maglia, Sabrina Suardi

Categoria: Rifiuti


 
Al fine di verificare la disciplina corretta da applicare per la gestione delle terre e rocce da scavo, è preliminarmente necessario determinare se si intende utilizzare le stesse nello stesso sito di produzione oppure in sito differente.
 
L’utilizzo nello stesso sito è normato dall’art. 185, lett. c), del D.lgs. 152/2006 e dall’art. 24 del nuovo D.P.R. 120/2017 (recante la disciplina semplificata della gestione delle terre e rocce da scavo, ai sensi dell’articolo 8 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164) che disciplina la gestione delle terre come “non rifiuto.
 
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Ma andiamo per gradi.
 
In un’ottica di agevolazione del riutilizzo del materiale escavato nello stesso sito di produzione, anche l’Italia ha accolto, all’art. 185, del D.L.vo 152/2006 come modificato dal D.L.vo 205/2010, a far data dal 27 dicembre 2015, le modifiche di derivazione europea (Direttiva 2008/98/Ce) che hanno riguardato in particolare il c. 1, lett. b) e c), il quale dispone “1. Non rientrano nel campo di applicazione della parte quarta del presente decreto:

  1. b) il terreno (in situ), inclusi il suolo contaminato non scavato e gli edifici collegati permanentemente al terreno, fermo restando quanto previsto dagli artt. 239 e ss. relativamente alla bonifica di siti contaminati;
  2. c) il suolo non contaminato e altro materiale allo stato naturale escavato nel corso di attività di costruzione, ove sia certo che esso verrà riutilizzato a fini di costruzione allo stato naturale e nello stesso sito in cui è stato escavato”.

Benché la prima modifica (lett. b) abbia uno scarso rilevo pratico per il tema in oggetto, offre tuttavia lo spunto per determinare il momento dal quale le terre e rocce divengono rifiuto. Il terreno non escavato, finché non sia rimosso, non può essere qualificato come rifiuto[1]. Tale assunto vale anche nel caso in cui si tratti di suolo contaminato, lasciando ovviamente campo, in quest’ultimo caso, all’applicazione della disciplina relativa alla bonifica dei siti contaminati di cui agli artt. 239 e ss. del D.L.vo 152/2006[2]. È proprio l’atto dell’escavazione/rimozione a rendere i materiali da scavo autonomi e, quindi, dei rifiuti[3].
 
La lett. c) risulta, invece, decisamente più rilevante in quanto fa riferimento al “suolo non contaminato e altro materiale allo stato naturale escavato nel corso di attività di costruzione, ove sia certo che esso verrà riutilizzato a fini di costruzione allo stato naturale e nello stesso sito in cui è stato escavato”. L’art. 24 del nuovo D.P.R.[4], che rappresenta l’interpretazione autentica del disposto appena richiamato, specifica poi che, al fine dell’operare dell’esclusione prevista dall’art. 185, comma 1, lett.c), D.L.vo 152/2006, è necessario che le terre e rocce:

  • siano utilizzate nello stesso sito di produzione;
  • ai fini di costruzione allo stato naturale[5];
  • e la non contaminazione deve essere verificata ai sensi dell’Allegato 4 del Regolamento.

 
È fin da subito da notare che il riferimento non è al “cantiere”, ma al “sito”, per la definizione del quale si è dovuto attendere il D.M. 161/2012 – Regolamento recante la disciplina dell’utilizzazione delle terre e rocce da scavo – oggi abrogato dall’art. 31, comma 1, del D.P.R. 120/2017, il quale definiva “sito: area o porzione di territorio geograficamente definita e determinata, intesa nelle sue componenti ambientali (suolo, sottosuolo e acque sotterranee, ivi incluso l’eventuale riporto) dove avviene lo scavo o l’utilizzo del materiale” (art. 1, comma 1, lett. l)).
 
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Posto che solitamente nell’elaborazione di un progetto è ritenuto conveniente, dal punto di vista organizzativo, economico ed ambientale, prediligere, ove possibile, il riutilizzo in loco del materiale da scavo piuttosto che gestirlo come rifiuto, spesso risulta difficile identificare concretamente ciò che il Legislatore abbia voluto intendere per “sito”.
 
A ben vedere, a parere di chi scrive, i limiti normativamente tracciati (“area o porzione di territorio geograficamente definita e determinata”) dipendono direttamente dal regime di favore accordato dal legislatore comunitario e nazionale al riutilizzo del materiale escavato nello stesso sito. Alla luce del dettato normativo risulta evidente, difatti, che la disciplina più favorevole deve ritenersi applicabile solo se il riutilizzo viene effettuato su di una porzione di territorio circoscritto, perimetrato e delimitato senza “uscire” in altre aree, ed in tale ultimo senso, deve essere intesa la nozione di “sito”. Quindi, più una sorta di “movimentazione” che di “trasporto” vero e proprio.
 
Non è, peraltro, possibile giungere ad una lettura diversa della nuova definizione di “sito” contenuta all’art. 2, comma 1, lett. i) del nuovo D.P.R. 120/2017 innanzi richiamato, che riporta “«sito»: area o porzione di territorio geograficamente definita e perimetrata, intesa nelle sue matrici ambientali (suolo e acque sotterranee)”. Si noti qui, rispetto alla precedente formulazione, il modo in cui viene maggiormente marcata la necessità che l’area in questione, pur potendo essere composta da uno come da più cantieri, debba dare certezza che la movimentazione del materiale sia confinata al suo interno.
 
Come anticipato, la corretta identificazione del “sito” risulta tutt’altro che di facile applicazione nelle fattispecie concrete soprattutto identificabili, ad esempio, nei progetti che coinvolgono le grandi infrastrutture (strade, ferrovie, canali ecc).
 
Si pensi ad un unico progetto che si sviluppa lungo tutta quanta una tratta autostradale, oppure ad un progetto nel quale la perimetrazione del cantiere cambia a seconda delle fasi di lavoro. In entrambi i casi, di fronte ad un unico progetto e ad un unico affidamento da parte della committenza, è lecito chiedersi se debba intendersi “unico” anche il sito, benché il suo perimetro, sebbene di volta in volta ben determinato, sia soggetto a continue modifiche.
 
È evidente che, al fine di permettere il riutilizzo delle terre e rocce escavate escludendole dalla disciplina dei rifiuti di cui alla Parte IV del D.L.vo 152/2006, applicando, alle fattispecie “borderline” del tipo innanzi richiamato, la disciplina di favore contenuta all’art. 24 del D.P.R. 120/2017, sarebbe necessario “forzare” la nozione di “sito”, di cui all’art. 2, comma 1, lett. i) del nuovo D.P.R. 120/2017.
 
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Risulta, altresì, chiaro che, davanti ad una definizione così fumosa, idonea a prestarsi a letture differenti[6], risulta di fondamentale importanza la capacità probatoria esplicabile nel singolo caso concreto al fine di dimostrare che, nell’eventualità di un controllo da parte dell’Autorità competente, non solo ciò che si sta trasportando è un non rifiuto ex art. 24, del D.P.R. 120/2017 con rinvio all’art. 185, comma 1, lett. c), del D.L.vo 152/2006, ma anche che il trasporto avviene in un’“area o porzione di territorio geograficamente definita e perimetrata, intesa nelle sue matrici ambientali (suolo e acque sotterranee)” (art. 2, comma 1, lett. i), D.P.R. 120/2017).
 
Per tutti quanti i motivi sopra richiamati, va da sé che la liceità del riutilizzo come non rifiuto di terre e rocce da scavo ai sensi dell’art. 24, D.P.R. 120/2017, all’interno di un’area il cui perimetro, sebbene di volta in volta ben determinato, sia soggetto a continue modifiche, a garanzia di tutti gli operatori coinvolti nel progetto e sussistendone i requisiti ai sensi all’art. 4, comma 2, D.P.R. 120/2017[7], in via cautelativa è consigliabile la gestione del materiale escavato in qualità di sottoprodotto che rende possibile l’utilizzo di terre e rocce da scavo in sito diverso da quello di produzione.
 
Anche in questo caso[8] non ci troveremmo di fronte ad un rifiuto ma ad un prodotto vero e proprio, per il trasporto del quale, quindi, il legislatore non richiede gli adempimenti documentali necessari per garantire la tracciabilità dei rifiuti: sarà sufficiente il DDT che, tuttavia, dovrà corrispondere alla documentazione richiesta dall’Allegato 7 che, ai fini della responsabilità di cui all’art. 8 del D.L.vo 286/2005, equivale alla copia del contratto in forma scritta di cui all’art. 6 del medesimo decreto, prevista per l’esercizio dell’attività di autotrasporto[9].
 
Al di fuori di tale ipotesi, si dovrà gestire il materiale escavato come rifiuto (art. 183, comma 1, lettera a), D.L.vo 152/2006), preferendo, ove possibile, ai sensi del quarto comma dell’art. 185 del medesimo decreto, un processo di recupero (art. 184-ter) al mero smaltimento.
 
Piacenza, 11.04.2018

[1] Si rammenta, inoltre, quanto stabilì la Corte di Cassazione Penale, Sezione III, con la Sentenza del 4 giugno 2008, n. 22245, seppur in una fattispecie differente: la tettoia di copertura costituisce parte integrante del capannone industriale, sicché, fino al momento in cui le lastre di cemento amianto non vengono rimosse, sono prive di autonomie rispetto al fabbricato di cui fanno parte e, pertanto, non possono essere qualificate rifiuto.

[2] S. MAGLIA, L. COLLINA, Terre e rocce da scavo. La nuova disciplina (D.P.R. 120/2017), Edizioni TuttoAmbiente, 2018.

[3]S.MAGLIA, M.BALOSSI, Case Studies: Individuazione del produttore dei materiali da scavo, in www.tuttoambiente.it.

[4]Ai fini dell’esclusione dall’ambito di applicazione della normativa sui rifiuti, le terre e rocce da scavo devono essere conformi ai requisiti di cui all’articolo 185, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e in particolare devono essere utilizzate nel sito di produzione. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 3, comma 2, del decreto-legge 25 gennaio 2012, n. 2, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 28, la non contaminazione è verificata ai sensi dell’allegato 4 del presente regolamento”.

[5] Il requisito dell’impiego “allo stato naturale” esclude l’adozione di trattamenti preventivi (impiego c.d. “tal quale”). Si veda S. MAGLIA, L. COLLINA, Terre e rocce da scavo. La nuova disciplina (D.P.R. 120/2017), op. cit.

[6] Nella prassi, ad esempio, c’è chi ammette l’identificazione del sito sulla base del contesto geologico presente, oppure ancora, chi ammette spostamenti di materiale a grande distanza dal luogo di escavazione purché il mezzo effettui il trasporto mantenendosi all’interno della recinzione di cantiere che delimita il sito di produzione.

[7][…] le terre e rocce da scavo per essere qualificate sottoprodotti devono soddisfare i seguenti requisiti:

  1. sono generate durante la realizzazione di un’opera, di cui costituiscono parte integrante e il cui scopo primario non è la produzione di tale materiale;
  2. il loro utilizzo è conforme alle disposizioni del piano di utilizzo di cui all’articolo 9 o della dichiarazione di cui all’articolo 21, e si realizza:
  • nel corso dell’esecuzione della stessa opera nella quale è stato generato o di un’opera diversa, per la realizzazione di reinterri, riempimenti, rimodellazioni, rilevati, miglioramenti fondiari o viari, recuperi ambientali oppure altre forme di ripristini e miglioramenti ambientali;
  • in processi produttivi, in sostituzione di materiali di cava;
  1. sono idonee ad essere utilizzate direttamente, ossia senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
  2. soddisfano i requisiti di qualità ambientale espressamente previsti dal Capo II o dal Capo III o dal Capo IV del presente regolamento, per le modalità di utilizzo specifico di cui alla lettera b)”.

[8] Oltre al necessitarsi di adeguata indagine ambientale di cui agli Allegati 1, 2 e 4 del D.P.R. 120/2017.

[9]Disposizioni per il riassetto normativo in materia di liberalizzazione regolata dell’esercizio dell’attività di autotrasportatore“.

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